Carl Lewis, i 60 anni di una leggenda in volo

Il “Figlio del Vento“ ha scritto la storia eguagliando il poker olimpico di Owens, il suo regno nel salto in lungo intaccato dal record di Powell

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di Leo Turrini

"Se non lo hai visto dal vivo almeno una volta, allora non puoi capire la grande bellezza dell’atletica leggera del 900".

Me la ricordo ancora, la frase che mi sussurrò un collega americano in una notte di Atlanta. Era il 1996 e il neo sessantenne Carl Lewis aveva appena conquistato, tra lo stupore di tanti, la sua quarta medaglia d’oro consecutiva del salto in lungo alle Olimpiadi. Il sigillo finale su una carriera epocale. Nata sulla scia di un desiderio di imitazione. Perché è vero, fondamentalmente Carl Lewis si era dedicato alle piste e alle pedane sognando di replicare il mito di un altro eroe nero. Jesse Owens, leggenda anti nazista a Berlino nel 1936.

I numeri, le cifre, le statistiche raccontano che Lewis che ha addirittura fatto meglio. Firmò il poker ai Giochi di Los Angeles del 1984 (100,200, lungo e staffetta veloce) ma soprattutto, appoggiandosi alle virtù della modernità,Lewis ha avuto una carriera ben più lunga di quella del predecessore.

Eppure, siamo di fronte ad un paradosso che non passa. A dispetto dei trionfi, inesorabilmente viaggiando tra le righe della memoria il nome del Figlio del Vento, come tutti prendemmo a chiamarlo sin dalle prime imprese, viene associato più al ricordo di una sconfitta (falsa) che all’esaltazione di un successo.

Sto parlando di quel duello, oggettivamente letterario e non soltanto agonistico, che nella seconda metà degli Anni Ottanta venne ad opporre Lewis al canadese Ben Johnson. La storia è nota. Johnson non valeva assolutamente l’americano in termini di talento puro. Ma aveva individuato, nella chimica e nella medicina esasperata, le forze oscure che potevano permettergli di ribaltare un verdetto già scritto.

E lo fece, non una ma due volte. Il Mondiale di Roma del 1987. L’Olimpiade di Seul del 1988. Sui 100 m, il nuovo re aveva quei muscoli spaventosamente gonfiati dagli steroidi anabolizzanti. E la leggerezza e l’eleganza di Lewis sembravano il residuo di un passato definitivamente cancellato da un nuovo modo di intendere lo sport dell’atletica. Scoprimmo in fretta che non era così. Scoprimmo rapidamente che Lewis aveva ragione quando alludeva, in maniera nemmeno tanto velata, ai trucchi del grande rivale. Il canadese viene smascherato e dopo un drammatico processo confessò tutto. I suoi record stellari vennero annullati, le medaglie d’oro vennero restituite a Carl. Ciò nonostante, ancora a distanza di tempo, anche in ragione di sospetti mai completamente dissipati su quelle che potevano essere le frequentazioni chimiche dello stesso Figlio del Vento, qualcuno immagina che Lewis avesse incontrato uno più forte.

Invece è corretto attenersi a ciò che abbiamo visto e ammirato davvero. Nel salto in lungo, Lewis è stato un interprete straordinariamente unico. Era, per carità, formidabile anche sui 100 m. Ma quello che sapeva fare catapultandosi della pedana verso la sabbia non è mai più stato replicato. E, anche qui si insinua l’ironia del destino. È bizzarro dover prendere atto che il più grande lunghista di tutti tempi non ha mai stabilito il record mondiale della specialità. Quando venne il momento di demolire il record mitico di Beamon, 8,90, non toccò a Lewis. In una pazzesca finale ridata a Tokyo, nel 1991, fu il suo connazionale Mike Powell ad atterrare a 8,95, negando al figlio del vento la consacrazione Definitiva.

È andata così. Di Lewis, del suo stile, della sua eleganza persino artistica, non ci dimenticheremo. Dei suoi buchi neri, neanche.