Giovedì 18 Aprile 2024

Zaccheroni: "Calcio italiano in declino, rilancio parta da tecnici e giovani"

L'INTERVISTA - L'ex ct del Giappone: "Se non ci sono i soldi, è dai campetti, dal lavoro quotidiano che bisogna ricominciare, crescendo bene i nostri talenti. E all’estero bisogna acquistare meno e con maggior oculatezza"

Alberto Zaccheroni (Afp)

Alberto Zaccheroni (Afp)

Bologna, 8 dicembre 2014 - Alberto Zaccheroni da Cesenatico ha 61 anni e il Giappone ai suoi piedi. E’ tornato di recente a Tokyo per salutare gli amici e ultimare il trasloco ed è stato letteralmente soffocato dall’abbraccio dei suoi fans. Là, dove ha vinto tutto ciò che poteva vincere (Coppa d’Asia, Coppa d’Asia orientale e qualificazione in carrozza ai Mondiali), è considerato l’Imperatore del Pallone ed è una star il cui volto è stampato su molti grattacieli della metropoli giapponesi.  Allena da trentuno anni: ha iniziato a Cesenatico e ha vinto tutti i campionati del nostro calcio, escluso quello di serie B. Ha vinto con il Milan lo scudetto nell’anno del centenario (1998-99), con sette vittorie su sette nelle ultime giornate. Con Trapattoni è l’unico allenatore nella storia del nostro calcio ad aver allenato Milan, Inter e Juve.  Con l’Udinese è arrivato terzo. Con Lazio, che ha ereditato al terz’ultimo posto, si è qualificato per la Uefa. Con l’Inter, ereditata da Cuper all’ottavo posto, si è qualificato per la Champions.

Zaccheroni, lei i quattro anni di declino del calcio italiano, da Sudafrica 2010 a Brasile 2014, li ha trascorsi in Giappone. Quando è tornato, che spiegazione ha dato alla crisi? «Mi è sembrata semplice: abbiamo meno possibilità di prima, ma adottiamo sempre lo stesso metodo».

Avremmo dovuto creare nuove possibilità o cambiare metodo? «Agnelli e Berlusconi, Moratti e Sensi, Cragnotti e Tanzi: le grandi famiglie che spendevano nel calcio non ci sono più. Per attrarre nuovi capitali bisogna creare un’industria che funzioni».

Qualcosa, però, si muove: l’Inter è ‘indonesiana’, Roma e Bologna sono ‘americane’. Perché petrolieri, emiri, sceicchi e nababbi vari non ci trovano attraenti? «Chi fa industria, come gli americani, viene qui a importare il suo modello. Gli arabi le industrie le rilevano già fatte e finite». 

Allora, caro Zac, come si rilancia la nostra povera industria-calcio? «Se non ci sono i soldi, è dai campetti, dal lavoro quotidiano che bisogna ricominciare, crescendo bene i nostri giovani. E all’estero bisogna acquistare meno e con maggior oculatezza».

Cos’è che non funziona a dovere sui nostri campi? «Gli allenatori dei nostri grandi settori giovanili così come quelli delle piccole squadre di provincia pensano soprattutto a vincere e così facendo spesso cancellano il processo fondamentale della crescita».

Più nel dettaglio, per favore. «In A o in B arrivano sempre più giocatori che non sanno né difendere né attaccare. Casomai sanno interpretare il loro ruolo dentro il modulo che ha scelto l’allenatore».

Come si è accorto di questo? «Guardo le partite e vedo che otto gol su dieci le nostre squadre li subiscono con i cross (pochi, perché ali e terzini bravi sono sempre meno) dalle fasce. I difensori guardano la palla e non seguono l’uomo che si sposta. Se l’attaccante si piazza nella ‘terra di nessuno’, segna. Se scompaiono i fondamentali, scordiamoci i Maldini e i Cannavaro».

Zac, lei negli ultimi tempi ha parlato poco e osservato tanto, pare. «Mi fermo a vedere gli allenamenti anche nei campi in provincia di Cesenatico e vedo ragazzini di dodici anni fare allenamento sui gradoni e saltare con i pesi in spalla. E’ roba da matti. Chiedete e Baggio e a Del Piero se facevano i gradoni e i pesi. Lo ripeto: molti allenatori delle giovanili, mica tutti, copiano quelli delle prime squadre solo e soltanto per vincere. E di certo non aiutano i ragazzi a crescere».

Passiamo agli attaccanti. «Un esempio per tutti: Balotelli. Ha grandi qualità, credo che non ci siano dubbi. Ma se gioca per ottanta minuti su novanta spalle alla porta, di gol ne farà sempre pochi».

Che cosa deve soprattutto fare un buon attaccante? «Nel gioco d’attacco me la cavo. Per tre volte i miei centravanti hanno vinto la classifica dei marcatori, senza mai essere i favoriti. Ma il Grande Maestro in materia è Zeman».

Vabbè Zac, ci accontentiamo. «L’attaccante deve sempre vedere palla e uomo, decidere in che direzione scattare e avere alle spalle chi gli sa passare il pallone».

E anche questo lo vede fare poco? «Da alcuni sì, da molti no».

I nostri giovani non sono addestrati al meglio ed è per questo che prendiamo tanti stranieri? «Ne imbarchiamo quantità industriali senza conoscerli, senza averli seguiti, senza sapere quali caratteristiche né quale carattere hanno. Quelli di prima fascia, che non hanno bisogno di presentazioni, non ce li possiamo più permettere».

Il quadro della situazione è pessimo, ma chiaro. Adesso le conclusioni.  «Sappiamo che il talento non ci è mai mancato né ci mancherà in futuro: in questo siamo sempre i migliori. Allora sfruttiamo bene ciò che abbiamo, costruiamo società modello e vedrete che anche in Italia, come in Germania e in Inghilterra, di investitori stranieri ne arriveranno tanti. Se il lavoro è ben fatto, i soldi arrivano».

Fino al 2006 battevano la Germania. Oggi pare irraggiungibile. «In quel paese per quindici anni i migliori allenatori si sono occupati anche dei settori giovanili».

Intanto il campionato, le Coppe e le Nazionali vanno avanti. Nell’immediato che cosa si può fare? «Ci portiamo in campo, a tutti i livelli, questo senso della frustrazione dovuto alla presa di coscienza del nostro declino. Lo consideriamo inesorabile. E siamo lenti, abbiamo perso intensità, scatto, smarcamento senza palla».

Zaccheroni, ci dica il nome di un nostro giocatore che non ha nessuno di questi difetti? «Pogba».

Gliene viene in mente anche uno italiano? «Marchisio».

E un talento tipico italiano, alla Baggio e Del Piero? «Pirlo».

Manca solo Vidal, poi il centrocampo della Juve è servito. Lei dice più Juve che Roma. «Dico soprattutto che il problema è che siamo tornati agli Anni Settanta e Ottanta, con lo scudetto che era sempre e solo una questione a due. Negli Anni Novanta c’erano le sei o sette sorelle, ma pare un secolo fa».

Senta Zaccheroni, lei è stato per quattro anni dall’altra parte del mondo, ma ha una capacità sorprendente di analizzare il calcio italiano. Che faceva a Tokyo, puntava la sveglia alle quattro del mattino per vedere il nostro campionato? «L’ho fatto qualche volta, ma per vedere all’opera un solo allenatore. Che è Antonio Conte».

Perché lui? «Perché la sua Juve ha puntato su intensità, forza, rabbia e determinazione e precisione: tutto ciò che bisogna metterci oggi per non perdere il tram».

La nuova Nazionale assomiglierà a quella Juve? «Posso soltanto dire che Conte ci proverà con tutte le sue forze».