Pelé nell’Olimpo. Con Maradona e Messi era la Trinità. E un inno alla fantasia

È stato l’eroe assoluto della tv in bianco e nero, ha segnato un’epoca. Nella religione pagana del football troneggia insieme agli altri assi sudamericani

Se non altro, O Rei ha avuto il tempo di vedere la consacrazione definitiva, mondiale!, del suo ultimo erede, Leo Messi. Perché non c’è dubbio: chi considera il calcio alla stregua di una religione pagana, beh, ha la sua Trinità. Pelé. Maradona. Infine e appunto, Messi. Tutti sudamericani, tutti espressione di una Anima Latina che si identifica nel pallone che rotola. E lasciamo stare la contrapposizione, persino filosofica, tra brasiliani e argentini: quei tre, con una sfera tra i piedi, in realtà mai hanno avuto un passaporto. Appartengono alle plebi di ogni continente e di ogni generazione. Sono idoli planetari: amati ovunque, adorati per la loro genialità. Pelé, Maradona e Messi ci stanno nel cuore per un motivo semplice semplice: hanno incarnato, incarnano il calcio dei bambini. Venivano dalla strada, dai campetti pieni di buche, talvolta persino da un disagio esistenziale. E tutti hanno superato ogni ostacolo, perché il Dio del football si è specchiato nel loro talento.

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Diego Maradona e Pelé
Diego Maradona e Pelé

Ma chi è stato il più grande, tra i Tre? Lo so, lo so. È la classica domanda da bar, eppure ce la siamo posta almeno una volta, davanti a un caffè o a tavola per il cenone di Capodanno. Dunque, non mi sottrarrò.

Pelé è stato l’eroe assoluto della televisione in bianco e nero. Il Mondiale che ne rivelò la straordinaria abilità pedatoria fu quello disputato in Svezia nel 1958. Il primo trasmesso dalla Rai. Pochi italiani avevano la tv in casa, andavano proprio nei bar a seguire il Lascia o raddoppia di Mike Bongiorno. Ma tra un quiz e l’altro spuntò quel ragazzino dalla pelle scura. Faceva, il giovanissimo Edson Arantes do Nascimiento, cose meravigliose. Il colore che ancora non c’era sul piccolo schermo idealmente lo portò lui. Con la fantasia che era un inno alla libertà. Voglio dire questo: non per caso Pelé alza tre volte la Coppa in un mondo, a cavallo fra fine anni Cinquanta e alba degli anni Settanta, che sta dimenticando l’orrore della guerra e coltivando le illusioni che non dureranno: John Kennedy, i Beatles, Neil Armstrong sulla Luna…

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Poi si arriva a Maradona. Cioè si passa dal misticismo ascetico del brasiliano figlio delle favelas alla tracotante esuberanza di Diego Armando. Scusate, cosa fu il Pibe de Oro se non l’esaltazione, persino sfrenata, del delirio ludico? El Diez non si vergognava di avere segnato un gol con un pugno, pur di eliminare gli odiati inglesi. Scomodò la Mano de Dios e contemplandone l’immenso talento tutti ci adattammo a riconoscerne la sfrontatezza. E attenzione, non sto dicendo che Pelé sia stato eticamente, moralmente superiore a Maradona: non è questo il punto. Banalmente, era cambiata la sensibilità collettiva. Il bianco e nero della televisione era un invito alla compostezza, alla educazione, al rispetto delle regole. Dieguito, simbolo a colori, è stato un gigante: anche, e purtroppo, nell’infischiarsene delle regole.

Infine, è arrivato Messi. Sui nostri schermi piatti, sulle app, sulla trasmissione in streaming delle partite. È arrivato, Leo, dalla stessa Argentina di Maradona, subendo per anni l’ossessione di un paragone continuo, asfissiante, doloroso. Qualunque prodigio combinasse sul campo, sempre saltava su qualcuno a dire: ah, però Diego ha vinto il mondiale… In Qatar, il terzo pilastro di questa collettiva divinità calcistica ha chiuso i conti. La Coppa l’ha alzata anche lui e forse la pianteremo con la tendenza a sminuire la Pulga, la Pulce, il Fenomeno vero di un calcio 4.0, cioè velocissimo.

E allora, direte voi, a che conclusione arriviamo? Saluterò con la risposta: anche nella religione pagana chiamata calcio, la Trinità è una. E indivisibile.

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