Gigi Riva: "I silenzi con De André e l’incontro con Mesina. La Sardegna è casa mia"

Il bomber del Cagliari che rifiutò la Juventus e scelse (per sempre) l’isola. "Grazianeddu si metteva la barba finta per venirmi a vedere allo stadio. Non accettai il miliardo di lire di Boniperti. Faber? Era il mio unico idolo"

Gigi Riva, 78 anni, ai tempi del Cagliari

Gigi Riva, 78 anni, ai tempi del Cagliari

Roma, 5 dicembre 2022 - Rombo di tuono, Achille, Giggirrriva. Con quella faccia da dio greco, il sinistro potente come un ciclone, i pettorali larghi come piazze, Gigi Riva si è guadagnato un posto di riguardo fra i miti del calcio. Eppure dietro la corazza dell’idolo si nascondevano le insicurezze di un bambino rimasto troppo presto orfano dei genitori e la perfida, insidiosa minaccia della depressione, il mal sottile che è tornato a galla dal mare profondo dell’anima nei suoi anni più maturi. È un vissuto che riaffiora nel docufilm di Riccardo Milani Nel nostro cielo un Rombo di tuono. Un regalo per i 78 anni del campione, chiuso nella sua amata isola, la Sardegna: il luogo dove ha scritto la sua leggenda con il Cagliari, il posto dove ha scelto di vivere per sempre.

Gigi, come mai ha deciso di raccontarsi davanti a una telecamera? "L’ho fatto volentieri, ho parlato di certe debolezze nascoste sotto la scorza di un calciatore. Spero che questo film e la storia della mia vita possano servire a qualche giovane promessa del calcio per crescere meglio".

Come è stato rivedersi sullo schermo? "Alla prima proiezione quando parlavano di me mi vergognavo. Non pensavo di meritare tanti elogi".

Da dove nasce il Riva chiuso e silenzioso che emerge anche nel film? "Dagli anni dell’infanzia, quando il nido si è spezzato troppo in fretta. Ho perso mio padre a nove anni e la mamma a sedici. Se pensavo alle cose importanti della vita, capivo che io non le avevo più. Mi sono aggrappato al calcio, ai campi fangosi di Leggiuno. Mi sono chiuso nel silenzio, a cercare me stesso e la mia strada".

E l’ha trovata a Cagliari. "È stato un amore contrastato. Quando arrivai, nel 1963, e l’aereo planò su una pista buia e desolata, mi sembrò di essere in Africa. Ero già pronto a fare le valigie e a tornare indietro".

E invece? "Invece capii presto che quello era il posto giusto per me. La stessa idea di isola, lontano da tutto e da tutti, rispecchiava il mio stato d’animo. E poi mi piaceva l’orgoglio dei sardi, la passione per la loro terra".

Conquistò tutti con lo storico scudetto del Cagliari nel 1970, diventò il simbolo anche della riscossa della Sardegna... "Quella stagione indimenticabile me la porto dentro: l’affetto della gente, la gioia semplice e traboccante. I sardi mi adottarono mi scelsero come simbolo, mi fecero sentire uno di loro".

Così integrato e felice da rifiutare la proposta della Juventus di Boniperti... "Ad Arrica avevano offerto un miliardo e nove giocatori per portarmi a Torino. Ma io dissi: presidente non mi muovo, questa è la mia terra e non l’abbandonerò più".

Tra i suoi supertifosi c’era anche Graziano Mesina, il re del banditismo sardo... "So che veniva a vedermi allo stadio con barbe finte e curiosi travestimenti. Chiese di conoscermi e ci incontrammo. Mi fece una buona impressione. Ho sempre condannato i suoi delitti, ma Grazianeddu era anche l’espressione di un mondo povero, di un’isola dove si faceva la fame. Ecco perché intorno a quei banditi è nato un alone romantico. A modo loro rivendicavano attenzione per la Sardegna, ne invocavano il progresso, la crescita, la modernizzazione. Tutte cose che poi sono arrivate con il tempo".

Tra i suoi idoli musicali di quegli anni c’era Fabrizio De André. "Adoravo la profondità semplice e poetica delle sue canzoni e riuscii ad incontrarlo a Genova. Quando ci hanno lasciati soli in salotto, siamo rimasti lì un’ora senza aprire bocca. Come due stoccafissi. Una scena imbarazzante ma eravamo proprio uguali. Il silenzio è stato sempre la nostra prima scelta".

I fantasmi del passato sono riemersi in anni recenti, quando ha sofferto di depressione. "È stato dopo il 2013, quando ho lasciato il mio incarico di team manager della nazionale dopo vent’anni. Non è stato facile uscirne, vedevo tutto nero, mi rinchiudevo in casa. Senza le attenzioni del medico del Cagliari e senza l’aiuto dei farmaci non so se ne sarei uscito".

Ora vive solo ma non ha perso il suo grande amore, Gianna Tofanari. All’epoca la vostra love story fece scandalo. "Era 1968, il divorzio ancora non esisteva. Me ne innamorai perdutamente. Lei era già separata ma aveva un marito. Così la chiamarono la “Dama bionda” e quando attraversavo momenti di crisi, scrissero che era colpa sua, della donna fatale. Stupidaggini. Gianna è diventata mia moglie e mi ha dato due figli".

Si ritrova nel soprannome Rombo di tuono coniato da Gianni Brera? "Me lo affibbiò per la potenza del mio sinistro, che in effetti era una specie di cannone. Un raccattapalle si fratturò un braccio, tentando di fermare un mio tiro finito oltre il fondo. Quel soprannome adesso mi appartiene, ma Brera qualche anno prima aveva detto che con un piede solo non avrei mai fatto carriera".

Rimpianti per il mondiale perduto del 1970? "Quel Brasile era troppo forte. Per batterlo servivano grinta e una perfetta condizione fisica. Noi avevamo già speso tutto nel 4-3 con la Germania, eravamo scarichi e forse appagati".

Un pensiero per la Nazionale italiana che ha fallito i mondiali. "La maglia azzurra è per me una seconda pelle, me la sento ancora incollata addosso. Questi mondiali non li guardo, sono uno spettacolo senza poesia. Ma come può la Nazionale tornare a crescere se i club ingaggiano solo stranieri? Per emergere bisogna essere dei veri fenomeni".

Gigi Riva ce la farebbe? "Sono figlio di un altro tempo e ne vado fiero, fumo la mia sigaretta e viaggio con i ricordi".