Italia-Inghilterra: le migliori finali della nostra vita

Le partite decisive segnano il nostro modo di essere: nel 1970 contro il Brasile diventammo tutti più disillusi. Tra riti scaramantici, paure e desideri, anche oggi ci rispecchieremo nel risultato degli Azzurri

La finale del Mondiale 1970 in Messico: Italia- Brasile

La finale del Mondiale 1970 in Messico: Italia- Brasile

Le finali, che scandiscono la nostra vita a intervalli più o meno regolari, e che restano incancellabili nella memoria, segnano anche, e soprattutto, il nostro modo di crescere e poi di essere: formandoci, cambiandoci, facendo emergere il positivo o il negativo del nostro carattere, a seconda del materiale umano preesistente che esse incontrano. La prima finale della mia vita è quella, celeberrima, dello stadio Azteca di Città del Messico. Era il 21 giugno del 1970. L’Italia di Riva, Boninsegna e della staffetta Mazzola-Rivera affrontava il Brasile di Pelé, Gérson, Tostao, Jairzinho, Carlos Alberto.

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Avevo undici anni e un’enorme – ingenua, candida – aspettativa. Il Brasile andò in vantaggio dopo diciannove minuti e per il dolore – e nel tentativo di distrarmi – andai in cucina e presi un aggeggio che avevamo appena comprato, e che sarebbe dovuto servire per confezionare in casa delle caramelle. Stavo armeggiando con quello quando pareggiò Boninsegna. Si insinuò in quel momento in me la più classica delle psicopatologie del tifoso: quella della scaramanzia. Andai avanti a far caramelle nell’illusione che un qualche dio potesse perorare la nostra causa sul campo dell’Azteca, dove invece i brasiliani procedevano quasi leggeri nell’asfaltarci. Sul 4-1 per loro, e a sei minuti dalla fine, il nostro allenatore Ferruccio Valcareggi mandò in campo Rivera. In casa mia nessuno, a parte me, aveva mai visto una partita di calcio e mio fratello, che incarnava la classica figura del tifoso improvvisato da finale, mi chiese: "Ma è forte questo Rivera?", evidentemente ritenendo che uno "forte" potesse, in sei minuti, ribaltare la situazione. Andai a letto con un pensiero, ma forse sarebbe meglio dire con un sospetto, con un dubbio che non mi avrebbe mai più abbandonato: e cioè che se una cosa può finire bene o male, finisce male. Qualche anno dopo avrei sentito parlare della legge di Murphy: "Se qualcosa può andare storto, lo farà".

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Una convinzione che venne confermata in modo praticamente definitivo appena due anni dopo, quando vissi la mia seconda finale, Ajax-Inter, Coppa dei Campioni. La guardai in televisione con un’altra candida illusione: speravo che, avendo perso la prima finale, avrei ottenuto una sorta di risarcimento vincendo la seconda. Finì 2-0 per gli olandesi e di quella partita conservo un solo ma nitido ricordo: l’immagine dell’unica volta in cui l’Inter oltrepassò – inutilmente – la metà campo.

La vita mi avrebbe poi offerto un’altra lunga serie di disillusioni. La finale dei Mondiali del 1994 persa ai rigori contro il Brasile, e la notte passata a spiegare al mio primo figlio, sei anni, che l’importante è partecipare. E poi la finale degli Europei del 2000, con la panchina azzurra già pronta a scattare in campo per festeggiare la vittoria quando arrivò il gol del pareggio della Francia; e poco dopo il golden gol, una roba talmente assurda che durò solo lo spazio di quel torneo. E poi finali di Coppa Uefa perse in casa ai rigori, e scudetti persi all’ultima giornata, e la finale di Wimbledon del 1980 fra quell’artista di McEnroe e quella betoniera della racchetta che era Borg. "Se qualcosa può andare storto, lo farà".

Le sconfitte insegnano più delle vittorie, specie se colpiscono un carattere già di suo propenso a sentire dolci tristezze. E finiscono per avere così il sopravvento sulle finali vinte, perché siamo onesti, di finali ciascuno di noi ne ha anche vinte, e tante. Quando nel 1982 l’Italia batté la Germania e diventò campione del mondo, al termine di un Mondiale che non la vedeva affatto favorita, appesi in camera mia un calendario con la data, 11 luglio 1982, a futura memoria, per ricordarmi sempre che in realtà anche l’impossibile può accadere, anche i sogni più arditi. Ma resta il dubbio. Il 22 maggio del 2010 ero inviato al Santiago Bernabeu quando l’Inter vinse la Champions contro il Bayern. Nel dopopartita una giornalista di una tv francese cercava un italiano che parlasse un po’ la sua lingua per un’intervista. Mi chiese che cosa stessi provando. "Stupore", le risposi, "ero convinto che sarei morto senza vedere una vittoria dell’Inter in Champions". Lei scoppiò a ridere pensando che scherzassi. Ma io ero serissimo.

Queste sono le finali, in fondo maestre di vita, piccolo segno di quegli altri desideri e quelle altre malinconie, ben più profonde, che ci portiamo dentro.