Italia campione d'Europa. E ora andiamo a prenderci i mondiali in Qatar

Gli azzurri hanno aperto un ciclo: come la squadra sbarazzina di Bearzot nel ’78, ma stavolta abbiamo anche vinto subito

Il bellissimo abbraccio di Leonardo Spinazzola con Roberto Mancini

Il bellissimo abbraccio di Leonardo Spinazzola con Roberto Mancini

Sorry, it’s not coming home. Siamo noi, i campioni dell’Europa siamo noi. 53 anni dopo. Meritatamente e del resto un Paese, il Paese di Donnarumma e di Mancini, capace di tenere insieme al governo Renzi e Letta, Grillo e Berlusconi, Bersani e Salvini, via è capace di qualunque impresa.

Non solo. Di sicuro, noi guarderemo avanti! Al 18 dicembre 2022. Data della finale del prossimo mondiale, nel deserto del Qatar. Mancano, se non sbaglio, 524 giorni. Giorni che abbiamo il desiderio di immaginare liberi dalla ossessione della pandemia.

Perché davvero, al netto di ogni retorica, questo mese meravigliosamente azzurro ha lentamente ma inesorabilmente risvegliato il nostro sentimento più intenso e profondo. Tra un gol e l’altro, ci siamo sentiti proiettati verso la riconquista della libertà.

C’è qualcosa di sublime, sul serio, nel calcio e più in generale nello sport, quando l’emozione si specchia nell’anima di un popolo. Certo il risultato esprime la verità definitiva ed inappellabile, ma conta infinitamente il percorso, il viaggio. Abbiamo tutti una valigia parcheggiata in un angolo di cuore. Figuriamoci da reduci di una prigionia, fisica e psicologica, che ha tormentato ed addolorato ognuno di noi.

Non sapremo mai quanto questa consapevolezza abbia alimentato le giocate di Insigne, le parate di Donnarumma, le corse di Barella, i salvataggi di Bonucci. Lo scrivo per esperienza professionale: gli assi della pedata vivono sempre e comunque in una bolla, a prescindere dal virus. Sono isolati dalla vita quotidiana della gente comune, perché così va il mondo dello sport business. Non è un discorso solo italiano: vale anche per i Messi, i Ronaldo, i Neymar. Dubito conoscano il prezzo di un litro di latte o di un litro di benzina.

Eppure, forse stavolta è successo qualcosa di diverso. C’era come la sensazione che piano piano quell’applauso corale, timido e sempre più fragoroso, arrivasse dritto allo spirito e ai muscoli della Squadra, con la maiuscola. Cioè è scattato un processo di identificazione. Noi e loro. Lo spogliatoio e la piazza. Il gruppo e la folla. Mancini e Mattarella. Sullo sfondo, una voglia pazzesca di stare assieme.

L’amore è condivisione, fratello e sorella che leggete queste righe. Anche l’amore per una cosa da niente, quale dovrebbe essere un pallone che rotola. Quando riusciamo a smetterla di pensare da egoisti, entriamo in una dimensione distinta e distante. Più alta.

A memoria, capitò qualcosa di simile nel 1978. Il furore terrorista dilagava in Italia, Aldo Moro era appena stato assassinato, il Presidente della Repubblica Giovanni Leone era stato costretto alle dimissioni. Da una Argentina lontana lontana, presero ad arrivare le immagini della prima Nazionale di Enzo Bearzot, protagonista stupefacente di un mondiale non vinto ma quasi. Fu lì, lo affermo senza pudore, che la mia generazione intuì che ne saremmo venuti fuori, perché esisteva, anche e per fortuna, una idea sana della Nazione.

Vale anche oggi. Un Paese capace di tenere insieme al governo Grillo e Berlusconi, Renzi e Bersani, Letta e Salvini, andiamo, è capace di tutto. In senso buono. In senso azzurro.