Mercoledì 24 Aprile 2024

Azeglio Vicini, il galantuomo dimenticato dal calcio italiano

Il ct di Italia90 è morto a 84 anni. La sua fu la la prima Nazionale che cercava la vittoria attraverso il gioco

Azeglio Vicini, a destra, con Alessandro Altobelli (Ansa)

Azeglio Vicini, a destra, con Alessandro Altobelli (Ansa)

Roma, 31 gennaio 2018 - Una volta Beppe Bergomi, lo Zio campione del mondo con l’Italia di Bearzot nel 1982, mi sorprese con una frase. Questa:”Anche se non vinse, la Nazionale più amata dalla gente è stata quella allenata dal grande Azeglio”.

Azeglio, cioè Vicini. Oggi che se ne va per sempre, irresistibile si fa la suggestione di un ricordo semplice e dolce. Il personaggio era un galantuomo, un romagnolo che sapeva governare le esuberanze con l’eleganza del signore.

Vicini! Gli azzurri delle Notti Magiche inseguendo un gol. La squadra del primo Roberto Baggio e dei rampanti Vialli e Maldini. Ma anche un gruppo che segnava una svolta culturale, se mi si passa il termine: fu, quella di Azeglio, la prima Italia che cercava la vittoria attraverso il gioco. Adesso pare una banalità, allora era una enormità, in un paese nel quale nemmeno il coraggio di Bearzot aveva potuto demolire la sindrome del catenaccio.

Vicini era cresciuto, come tecnico, all’interno della scuola federale. Con la Under aveva costruito un progetto, trasmesso un’idea, coltivando l’utopia. Non per niente fu lui a lanciare in azzurro Baggio, il gran sacerdote della fantasia.

Subentrato a Bearzot (di cui fu leale collaboratore pur non condividendone le asprezze caratteriali) nel 1986, a suo modo Vicini ha reso testimonianza di una certa visione dell’Italia, intesa come Paese. Nel suo calcio si avvertiva l’istanza di un ottimismo che allora ancora esisteva. L’Italia dell’epoca aveva molti difetti, senza essere preda di una crisi di nervi permanente. E la squadra di Azeglio tentava di intercettare e moltiplicare una allegria che era il prologo di una malinconia nascosta.

Così si legge anche la storia di Italia90, il mondiale che dovevamo vincere. Gli uomini di Vicini erano i più forti, come ben ricorda Bergomi, che stava in campo. Giocavano meglio di tutti, ispirati dai gol folli dello spiritato Schillaci.

Ma poi venne, al posto dell’euforia, la notte del disincanto. La semifinale di Napoli contro l’Argentina, mezzo stadio che tifava contro, che tifava Maradona: lì Vicini il romagnolo comprese che nemmeno a lui era riuscito il miracolo di unire una nazione che unita spesso è solo sulla carta.

Perse ai rigori, quella bellissima Nazionale. Perse e fu bollata con il marchio, infame e maramaldo, della Sconfitta con la maiuscola.

A Vicini venne attribuita la colpa. Neanche diciotto mesi ed era fuori da tutto. Dimenticato. In oltre un quarto di secolo, al Sistema mai venne in mente di recuperare le sue energie, il suo talento, la sua competenza.

Forse è anche per certe amnesie che il prossimo mondiale di calcio lo guarderemo in tv. E il rimpianto per l’Italia di Azeglio, galantuomo illuminato, appartiene sempre più a chi sa leggere tra le righe di una Storia.