Giovedì 18 Aprile 2024

Riccardo Pittis: "In campo ho vinto tanto, poi ho perso quasi tutto"

L’ex capitano della nazionale di basket non ha mai saltato una partita: "Dopo il ritiro ho dilapidato un milione, un baratro personale ed economico. Gli atleti sono fragili. Ho trovato il mio riscatto facendo il mental coach"

Riccardo Pittis con la maglia della Nazionale nel 2022 (Ansa)

Riccardo Pittis con la maglia della Nazionale nel 2022 (Ansa)

Una vita (anzi, due) da record. Riccardo Pittis, 53enne ex ala della Nazionale di basket, nella ‘prima’ ventennale carriera sportiva, condita da 23 trofei, non ha mai saltato una partita per infortunio: qualcosa di incredibile. Come se non bastasse, quando aveva 30 anni, per superare un grave problema ai tendini della mano destra, ha iniziato a tirare di sinistro con risultati eccezionali. Poi, dal ritiro nel 2005 sono cominciati i problemi che lo hanno portato sull’orlo del baratro, mentale ed economico. Ora – nel ruolo di mental coach – insegna a importanti aziende come rialzarsi e ripartire.

Riccardo, quanto è stato difficile appendere le scarpe al chiodo?

"Non è mai facile metabolizzare la fine di qualcosa che hai amato per anni. Nonostante tu abbia ancora tanta voglia di farlo, ci sono segnali che il corpo e la mente danno. A un certo punto mi pesava fare il doppio allenamento quotidiano, andare in trasferta o stare in ritiro. La partita ancora mi piaceva molto, ma il contorno no".

Nelle settimane scorse si è ritirato Roger Federer: le si è riaperta la ferita?

"Mi sono commosso, è un momento che ha risvegliato tutto ciò che avevo vissuto. Federer è la dimostrazione che per quanto tu possa essere freddo e razionale in campo, resti un essere umano. Quando ti rendi conto che è l’ultimo giorno, piangi come un bambino. Vivi un lutto".

Nel suo libro Lasciatemi perdere (Roi Edizioni, 18,90 euro, 192 pagine) parla di sconfitte, problemi e investimenti sbagliati: cosa è successo dopo la fine della vita da giocatore?

"Avevo chiara una cosa, quello che non mi sarebbe piaciuto fare: continuare nel mondo del basket. Ma non sapevo cosa mi interessava fare. Così ho iniziato a testare un mondo che non conoscevo, quello imprenditoriale, nello specifico della ristorazione e immobiliare. E l’ho fatto con la presunzione di colui che sa già come funzionano le cose anche se non conoscevo le basi. Così ho fatto danni enormi".

Ha sperperato tutto quello che aveva guadagnato?

"Sono finito sul baratro finanziario, perdendo oltre un milione di euro. Ho dilapidato tutto".

Si è fidato delle persone sbagliate?

"Anche, ho dato fiducia a chi non la meritava e ho coinvolto persone molto meno competenti di quello che sembravano. Poi, sono entrato nel settore immobiliare poco prima della grande crisi del 2008. Insomma, la tempesta perfetta".

In quegli anni della vergogna dell’insuccesso le è mai balenata l’idea di farla finita?

"Mi sono fermato poco prima di pensare al gesto estremo, perché ho un amore infinito verso la vita. La gente ormai si è dimenticata della raffica di imprenditori suicidi nel Nordest in quel periodo. Era la vergogna della sconfitta".

Chi l’ha salvata dal baratro?

"In primis la mia forza di volontà, anche se non chiedevo ‘aiuto’ facendo finta che andasse tutto bene. Grazie allo sport ho imparato a cadere sconfitto e rialzarmi per vincere la partita successiva. Uno su tutti a darmi una mano è stato mio padre, che ora non c’è più".

Sono molti i giocatori professionisti che incontrano queste difficoltà?

"Molto più di quanto si pensi. Il post sport è davvero complesso, anche se ora c’è maggiore sensibilità sul tema dopo tanti esempi di persone in difficoltà".

Ha mai aiutato ex colleghi in depressione?

"Non ancora, però mi capita spesso quando incontro qualche amico o atleta che finisce la carriera di parlare e piano piano entriamo in quel territorio paludoso che nessuno vuole toccare. È invece importante farlo, prima che sia troppo tardi".

La gente pensa all’atleta come a un supereroe, che non può mai mostrare paure e debolezze. Un aspetto oscuro dello sport è l’omosessualità: sono molti i cestisti che non hanno il coraggio di fare coming out?

"Oggi non so dirlo, ma ieri (Pittis ha smesso 17 anni fa, ndr) era impossibile che un giocatore si dichiarasse gay: c’era un livello culturale così basso che sarebbe andato incontro a terribili sfottò, peggio del bullismo. Adesso qualche atleta fa coming out, ma siamo ancora molto indietro rispetto all’accettazione di un aspetto naturale".

Ora lei fa il mental coach in vari contesti. Perché la sua figura professionale è più accettata dall’opinione pubblica rispetto a quella dello psicologo, che porta un’aura di vergogna nei pazienti?

"È un fattore culturale, se uno va dallo psicologo viene etichettato come problematico o matto: penso che chiunque dovrebbe andarci. Come si va dall’ortopedico se si ha un problema all’articolazione, si dovrebbe andare in terapia se si ha un disagio mentale".

Nella sua carriera ventennale tra Milano e Treviso non hai mai saltato una partita, un record incredibile. Eppure quando era bambino ha affrontato un super intervento al cuore. È stato quello il momento in cui si è detto, inconsciamente: ora non mi ferma nessuno?

"Ho sempre avuto una cura maniacale del mio corpo, evitavo tutto ciò che poteva farmi male. Sono sempre andato oltre i piccoli fastidi che mi impedivano di essere al 100%: io preferivo giocare e fare una brutta partita, piuttosto che non esserci".

Che ricordo ha dei Benetton quando giocava a Treviso?

"Erano molto presenti. Gilberto si perdeva una partita solo se aveva appuntamenti di lavoro estremamente importanti. Così anche la moglie, i figli e gli altri membri della famiglia. Erano enormemente appassionati e questo è il motivo per cui hanno lasciato: la passione era venuta meno".

Se non ci fosse stato il basket, che cosa avrebbe fatto Pittis?

"Mi ero iscritto a Giurisprudenza, volevo fare l’avvocato. Diciamo che mi è andata bene".

Il più grande rimpianto?

"Aver pensato di poter eccellere in altri campi senza essere preparato a farlo".