Pantani, mezzo secolo da Pirata. Il mito non muore mai

Il fuoriclasse della bici nacque il 13 gennaio di cinquant’anni fa

Marco Pantani (Ansa)

Marco Pantani (Ansa)

Roma, 12 gennaio 2020 - Di Marco Pantani ce ne sono due, casualmente nati lo stesso giorno, il 13 gennaio di cinquant’anni fa. C’è il Pantani fuoriclasse della bici, che ha fatto innamorare un Paese intero con le sue imprese, staccando gli avversari in salita, perfetta sintesi di grinta e coraggio: l’emblema di chi non si ferma davanti alle montagne, e nel suo caso non era soltanto un modo di dire. 

E c’è il Pantani diventato campione della cronaca, prima con la sua tragica vicenda umana, poi con quel che ne è seguito nelle aule giudiziarie, dove ipotesi di ogni tipo, compresa quella di una morte provocata da altri e non dall’esser schiavo della cocaina, non hanno trovato conferma o semplicemente non sono state dimostrate. Per quanto la cronaca possa essere invadente, c’è da credere che alla fine prevarrà la storia: in fondo, dei due Pantani interessa quasi esclusivamente il primo. 

Non è certo una ricorrenza a tener desta l’attenzione sul ciclista più amato e al tempo stesso più controverso dell’ultimo trentennio: il compleanno, che domani sarebbe stato il cinquantesimo, così come l’anniversario della scomparsa, il 14 febbraio, per chi ha voluto bene a Marco altro non sono che semplici tappe della memoria, nemmeno le più importanti. 

La biglia gigante raffigurante Marco Pantani nella sede della Mercatone Uno
La biglia gigante raffigurante Marco Pantani nella sede della Mercatone Uno

A farlo vivere nel cuore di un popolo che ancora lo celebra sulle strade del Giro, che lo celebra nei racconti come un moderno Coppi e non si stanca di andarlo a cercare nei filmati dell’epoca su internet, è ciò che di più bello può lasciare in eredità uno sportivo: l’emozione di un gesto vincente. Con i suoi attacchi, ritualmente annunciati dal lancio di cappellino e bandana, Pantani ha inchiodato al teleschermo l’Italia intera, come faceva nello sci il suo amico Alberto Tomba. 

Con Tomba rappresentava un genere speciale di campionissimo: quello che, quando ti aspetti un risultato straordinario, puntualmente non tradisce. Ed è ciò che nella mente dei fans non morirà mai. Curioso che si celebri il compleanno di una persona che non è riuscita a godersi l’ultimo. Storia di un 13 gennaio di sedici anni fa, un mese esatto prima della morte. Per festeggiare quella data speciale, Marco convocò a Predappio, nel ristorante dei suoi trionfi in bici, gli amici di sempre. 

Non solo loro: chiamò anche le persone che frequentava in quel periodo, come se volesse mettere assieme il passato col presente. Fosse o meno un tentativo di chiedere un aiuto, non funzionò: al Pantani apparso confuso e in forte crisi esistenziale, uno di quelli che lo conosceva fin da bambino gettò in faccia la cruda realtà. Sapeva in quale spirale fosse caduto il campione e glielo disse con toni accesi, accusandolo di essersi rovinato con le proprie mani. Smarrito e sorpreso, l’ex re di Giro e Tour ricevette il ‘soccorso’ dei nuovi amici: ‘Marco sta bene, non ha problemi: a lui pensiamo noi’, dissero, chiudendo sul nascere ogni discussione. Chiusero anche la serata: chi aveva provato a lanciare un salvagente all’uomo in difficoltà, non arrivò nemmeno al taglio della torta e lasciò il locale. 

Dei due Pantani presenti, quello che aveva voluto riabbracciare i compagni d’infanzia e quello che si era infilato in una congrega di ben altro tipo, prevalse il secondo: e questa, probabilmente, di tante che sono state raccontate è la verità che fa più male.