Giovedì 25 Aprile 2024

Addio Burgnich, leggenda di un’Inter imparata a memoria

Tutti conoscono la formazione euromondiale. Tarcisio vi aggiunse anche Europeo e la Partita del Secolo in cui segnò contro la Germania

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di Leo Turrini

“Vabbè, anche tu...”

Tarcisio Burgnich in fondo se lo aspettava. Alla fine di una chiacchierata dedicata ad altre cose, ovviamente gli chiesi di raccontarmi quel gol. Anzi, “il” gol: la prodezza improvvisa con la quale si era trasformato in bomber, durante la Partita del Secolo.

Era il 17 giugno 1970. Semifinale del mondiale messicano. Italia raggiunta in extremis dai tedeschi, grazie ad una rete di Schnellinger, milanista che non varcava mai la metà campo. E poi Germania in vantaggio ai supplementari, fin quando Tarcisio, un altro che non varcava mai la metà campo, mise dentro la palla del 2-2. Il resto è gloria e storia, con il 4-3 epico di Gianni Rivera.

È un paradosso, ma bellissimo. Burgnich, uno dei più grandi difensori del Novecento, conquistò l’immortalità nella memoria collettiva di un popolo per un gesto da attaccante. Ne rideva con la sobrietà di un friulano umile: “Boh, facciamo che passavo di lì-mi rispose- A volte le cose accadono senza un perché, ero andato avanti perché mi rodeva il gol di quel milanista del mio amico Schnellinger...”

Ah, Burgnich! Con Facchetti formò una coppia di terzini mai più vista. “Burgnich e Facchetti” era come dire Totò e Peppino al cinema, Mogol e Battisti nelle canzonette. C’erano, esistevano e tu sapevi che ti potevi fidare. Non ti avrebbero tradito.

Friulano solido e per niente portato per le pubbliche relazioni, ad inizio carriera Tarcisio era stato scartato dalla Juventus. Il Mago Herrera lo recuperò dagli archivi e ne fece un marcatore inesorabile. Contro qualunque attaccante, Burgnich andava alla guerra. Era leale, ma menava quando serviva. I suoi corpo a corpo con Gigi Riva, l’idolo del Cagliari, erano dei romanzi rusticani. I due si accapigliavano per novanta minuti e poi uscivano abbracciati: si volevano bene, si riconoscevano nei silenzi che preferivano alle chiacchiere inutili.

Simbolo dell’Inter euromondiale di Moratti padre (tre scudetti, più un quarto con Fraizzoli presidente nel 1971, due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali), Tarcisio non aveva provato l umiliazione della sconfitta contro i comunisti coreani, al mondiale del 1966: un infortunio lo aveva bloccato in tribuna. Ma la sofferenza del fraterno amico Facchetti e degli altri azzurri la condivise senza riserve: quel disastro fu il motore dell’unico titolo europeo vinto dall’Italia, nel 1968. E ancora della cavalcata nel mondiale di Mexico70: il gol ai tedeschi e anche quella immagine diventata leggenda.

L’immagine, già. 21 giugno 1970. Finale contro il Brasile. Un cross, il divino Pelé che si libra nell’aria, Burgnich che cerca di alzarsi a sua volta nella stratosfera ma non ci arriva, colpo di testa di Edson Arantes do Nascimiento, O Rey. Gol e Coppa Rimet in viaggio per Rio. Tutto racchiuso in una istantanea pazzesca, Pelé e Burgnich sospesi nel cielo, la differenza minima che passa tra Paradiso e Inferno.

“Mi fregò per un passo -raccontava Tarcisio- O Rey si mosse impercettibilmente all’indietro mentre mi apprestavo a saltare per anticiparlo. Ci rimasi male, ma lui era Pelé...”

E Burgnich è stato Burgnich ed è bello che una foto lo consacri assieme al più grande. Anzi, due sono le foto iconiche: c’è anche quella di un Bologna-Inter 3-2 del 1966, lì fu il suo conterraneo Ezio Pascutti a bruciarlo in tuffo. E Tarcisio rideva: “Pelé e Pascutti, la gente si domanderà chi è quel tizio accanto a loro nell’immagine...”

Era lui, con la sua bella e intensa carriera. Ormai anziano lasciò l’Inter per il Napoli e ancora visse momenti da campione. Con l’età si era spostato dietro la difesa, giocava da libero. Anche in questo, come Facchetti, il partner solidale, un altro eroe del silenzio.

Dopo, da allenatore, non ha avuto la fortuna che meritava. Estraneo al culto delle pubbliche relazioni, incapace di essere ruffiano, Burgnich si è accontentato di panchine non straordinarie. Ma è stato lui, nella stagione 1981-82, a lanciare in serie A, con la maglia del Bologna, l’adolescente Roberto Mancini. Perché di calcio la Roccia del Friuli ne sapeva, ne capiva.

E ce lo ha dimostrato, in campo e fuori.