Roma, 7 febbraio 2014 - Quando ti portano via un figlio di tre anni e poi fanno di tutto, anche molti anni dopo, per non fartelo ritrovare, avresti anche diritto di odiare il mondo. E di detestare la Chiesa, visto che quel bambino te l’hanno strappato mentre eri in una “Casa per ragazze madri” di suore irlandesi. Ma lei non è così. "Io non odio nessuno e non do a nessuno la colpa per quello che è successo", dice con i suoi modi pacati Philomena Lee, 78 anni. Le sua storia è raccontata nel bellissimo film “Philomena” di Stephen Frears, candidato a quattro premi Oscar, tra i quali quello per la migliore interprete, Judi Dench, che magnificamente la impersona. E grazie al successo del film, Philomena e sua figlia Jane Libberton, hanno lanciato il “Philomena Project” (www.thephilomenaproject.org), per convincere il governo irlandese a rendere pubblici i registri che consentirebbero a tante altre madri e figli (si parla di sessantamila adozioni forzate) di ritrovarsi. E di riabbracciarsi, come non ha potuto fare Philomena, perché quando ha scoperto dove trovare suo figlio, lui era già morto, di Aids, dopo avere disperatamente e inutilmente cercato di rintracciare sua madre.

Philomena, due giorni fa è stata ricevuta da papa Francesco. Un incontro molto desiderato?
"Per me è stato un grandissimo onore. Non avrei nemmeno immaginato di poterlo incontrare. Mi hanno fatto sentire in colpa per tutta la vita per avere avuto un bambino fuori dal matrimonio. Mi era stato insegnato che mi dovevo vergognare per quello che avevo fatto. Soltanto mio fratello ha sempre saputo, mentre a mia figlia l’ho detto dieci anni fa. Lì, davanti al Papa, ho capito nel profondo che non avevo davvero nessuna colpa e mi sono sentita finalmente liberata da questo fardello che ho portato con me per cinquant’anni".
Non pensa che altri dovrebbero vergognarsi per quanto fatto a migliaia di donne come lei?
"Quando è successo, nel ’52, avevo 16 anni. Ero un’adolescente e non sapevo niente di politica e di gerarchie della Chiesa. Adesso è passato talmente tanto tempo. Mio figlio Anthony oggi avrebbe 62 anni. Non avrei potuto vivere tutta la vita nel risentimento".
Come ha fatto a riconciliarsi con il mondo?
"All’inizio è stata dura, mi sentivo triste, ferita, arrabbiata e per un po’ mi sono anche allontanata dalla fede. Mi avevano trovato un lavoro a Liverpool, ma poi ho fatto l’infermiera in un ospedale psichiatrico. Lì, a contatto con la grande sofferenza degli altri, sono riuscita a mettere da parte la mia".
Il film è fedele alla sua storia?
"Il film si rifa al libro del giornalista Martin Sixsmith al quale avevo raccontato la mia vicenda. Ci sono alcune licenze, come il viaggio in America, ma è sostanzialmente molto fedele".
È in contatto con altre madri che hanno vissuto il suo stesso dramma?
"Dopo il successo del film, si sono rivolti a me soprattutto molti figli che mi dicono “forse mia madre era con te”. Ma io non sono in grado di aiutarli perché nessuna di noi conosceva la vera identità delle altre. Quando eravamo in quel collegio, tra le altre cose ci imponevano di rinunciare al nostro nome e di usarne uno inventato. Per tre anni io sono stata Marcella. Provavamo una tale vergogna, che ci tenevamo tutto per noi, compreso il nostro vero nome. Ero molto amica in particolare di una ragazza, ma non l’ho mai potuta ritrovare perché nemmeno di lei ho mai saputo come si chiamasse davvero".