Lunedì 28 Aprile 2025

Elena Fucci: L'Aglianico del Vulture dai vigneti storici del Titolo

Elena Fucci racconta la storia del suo Aglianico del Vulture, un vino pluripremiato nato dai vigneti storici di famiglia.

Elena Fucci guida l’omonima azienda. a Barile (Potenza)

Elena Fucci guida l’omonima azienda. a Barile (Potenza)

Elena Fucci produce Aglianico nelle vigne più antiche del Vulture, hanno ormai passato i settant’anni, a 600 metri di altezza. Una storia famigliare che parte da una scelta che oggi apparirebbe naturale, ma che al tempo non era così ovvia, di puntare su un singolo vitigno e sull’espressione del territorio. Una scelta che ha premiato l’azienda, pluripremiata per il suo ‘Titolo’.

Fucci, come è partito tutto?

"Sì, tutto è cominciato quando i miei genitori, entrambi insegnanti, decisero di non vendere i vigneti del nonno in Contrada Solagna del Titolo, a Barile, e da qui venne poi il nome. Era un unico appezzamento a 600 metri d’altitudine, un cru naturale. Invece di dividere i sette ettari o vendere le uve, come si faceva allora, abbiamo scommesso su un solo vino, da un solo vitigno: l’Aglianico del Vulture. Una scelta radicale, che oggi sembra naturale ma che allora non lo era. Senza contare che dovevo sempre raccontare cos’era il Vulture, cos’era l’Aglianico...".

Lei era giovanissima.

"Mi sono iscritta a Scienze Agrarie. Ho potuto applicare subito ciò che imparavo. Questo mi ha portata a sviluppare un approccio moderno, fuori dagli schemi. Al momento ero praticamente l’unica e questo mi ha dato anche una libertà. Crediamo nella ricerca. Per esempio abbiamo investito in tecnologia, come la diraspatrice che ci permette di selezionare solo gli acini fenolicamente perfetti: lavoriamo ad acini interi, con macerazioni brevi. L’obiettivo è esaltare l’identità dell’Aglianico. Un’uva dalla buccia spessa, che richiede una lavorazione particolare: decenni fa, per dire, era considerato solo un vitigno da taglio. In realtà ha un corredo polifenolico straordinario".

Capita ancora di dover raccontare cos’è il Vulture?

"Non più, è stato fatto un grande lavoro e ormai i clienti con cui lavoriamo ci conoscono".

Quanto conta il territorio?

"È tutto. Qui il terreno è particolarissimo, si vedono a occhio nudo le stratificazioni delle eruzioni. La vigna parla del territorio, il nostro è un unico cru, un’unica vigna: in Italia il termine spesso è utilizzato a proposito. Dal nostro primo appezzamento ne abbiamo acquisito un altro, sempre sul versante sud del Vulture ma con microclima diverso ed è completamente diverso. Così è nata una seconda etichetta, Sceg, che significa melograno. Credo molto nella vinificazione dei singoli cru: permette di raccontare le sfumature del suolo, delle eruzioni stratificate, del clima. L’Aglianico è un vitigno tardivo, cosa che ci sta aiutando con il cambiamento climatico".

Quanto della vostra produzione è dedicata all’export?

"Lavoriamo per il 30% in Italia, il 70% all’estero, soprattutto con gli Stati Uniti".

Ci sono incertezze.

"Lavoriamo per un target medio-alto e quindi potremmo non essere troppo colpiti dai dazi, sempre che non si arrivi a un’imposizione prolungata di dazi del 200%, spero fosse solo una provocazione di Trump. E il 2025 si presenta come un anno anomalo: a marzo abbiamo già fatturati da dicembre perché gli acquirenti hanno fatto scorte in vista dei dazi... forse il problema arriverà, ma per ora è un anno positivo".

Il vino è cambiato?

"Oggi si parla di terroir, di qualità, e questo grazie anche alla comunicazione, ai corsi da sommelier. A volte abbiamo creato mostri, c’è chi ha visto una puntata di Masterchef e crede di sapere tutto. Ma è un prezzo da pagare per la crescita. Immagini se il resto dell’agricoltura ricevesse la stessa attenzione".

Patrick Colgan