I genitori di Rigopiano: "Abbiamo paura di non arrivare a vedere giustizia"

La solidarietà con le vittime del coronavirus e i timori. Ieri si doveva tenere l'udienza preliminare, dopo sei rinvii. "I medici senza mascherine sono come i nostri soccorritori che scavavano a mani nude"

I familiari delle 29 vittime di Rigopiano all'ultimo anniversario, il 18 gennaio

I familiari delle 29 vittime di Rigopiano all'ultimo anniversario, il 18 gennaio

Rigopiano, 28 marzo 2020 - "Qualcuno si chiede se ora con l'epidemia ce la farà a vedere l'inizio di questo benedetto processo. Un po' per l'età, un po' perché magari c'è il rischio che possa rimanerci dentro, che si possa ammalare. Una mamma l'altro giorno diceva: ho promesso a mio figlio di andare avanti fino a quando avrò il coraggio e la forza. Ho paura". Ci sono legami nel dolore che non si allentano mai. Ci sono tragedie che si ripetono e sembrano sempre la stessa storia, anche ora che tutto è inaudito. Marcello Martella è uno dei papà di Rigopiano. Parla con il dolore di chi ha perso una figlia che era solo una ragazza di 24 anni, Cecilia. Eppure la prima cosa che dice è: "Solidarietà alle famiglie che piangono i morti e magari non sanno neppure dove sono le ceneri dei lori cari".

Ieri, venerdì, doveva tenersi l'udienza preliminare del processo per la strage del 18 gennaio 2017, sembra una vita fa. Rimandata, come tutto.

"Sì, e anche quello di ieri era l'ennesimo rinvio. C'è amarezza, certo. Ma in questo momento prevale un sentimento di solidarietà. Per le vittime del coronavirus e per tutti quelli che si stanno impegnando. Medici, infermieri, barellieri, forestali, alpini... Queste persone ci ricordano i giorni della tragedia, quello che abbiamo vissuto".

Eroi a mani nude. Come i sanitari contro il coronavirus, ancora oggi mancano le mascherine.

"E' così. Quella notte i soccorritori arrivarono su all'albergo, cancellato dalla valanga, con sci e pelli di foca ai piedi, con le scarpe basse, senza guanti. Avevano delle semplici pale e neanche per tutti, qualcuno scavò  con le mani. Rischiarono  la vita. Come i medici, oggi. Poi guardo la tv, vedo le conferenze alle sei del pomeriggio. Mi ricorda quello che abbiamo vissuto noi".

Una settimana nell'ospedale di Pescara, in attesa di notizie, tra dolore e speranza.

"Anche allora c'era un punto informazioni, proprio alla stessa ora. Ogni volta aspettavamo che arrivasse qualcuno di titolato, a cui poter credere. I primi due-tre giorni sì, avevamo speranza. Dopo no, rimanevamo solo in attesa  di essere chiamati.  Dicevano: abbiamo trovato due donne e un uomo... Come oggi: diventano numeri ma sono tutte persone. Hanno un nome, una storia, una famiglia".