ROBERTO MANCINI ALTA FEDELTÀ AL TRICOLORE

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di Paolo Franci

Profondamente, orgogliosamente italiano. Roberto Mancini lo è nell’anima, nel cuore, nelle idee, nei ragionamenti quotidiani. E non smette mai di esserlo. Per dirne una, a Manchester, quando allenava il City, il suo coro era sulle note di ’Volare’ di Modugno: "He come from Italy, To Manage Man City!". E quando vince la Premier a 47 anni di distanza dall’ultima volta per i Citizens, le prime foto come sono? Col tricolore sulle spalle.

Mancio l’essere italiano lo ostenta con fierezza, come colui che ricorda in ogni istante che razza di Paese sia il nostro per bellezza, arte, cultura, storia, architettura. E sapete bene quanto potremmo andare avanti. Italiano nel talento, Roberto Mancini, quando era in campo, con quelle invenzioni leonardesche e i gol di tacco michelangioleschi. Italiano nella sua capacità di essere un meraviglioso visionario sulla panchina della Nazionale. Anche lì: è stato il sentirsi così profondamente avvolto nel tricolore che lo ha portato a dire di sì alla Nazionale rinunciando ai soldi di San Pietroburgo. Non due spiccioli, ma 7 milioni di euro. Sì, lo ripetiamo: 7 milioni di euro. E sapete perché lo ha fatto? "Sento di dover risarcire la Nazionale per quello che non ho saputo darle, per come mi sono comportato". Mandò a quel paese Arrigo Sacchi prima del Mondiale di Usa ’94. Non tollerava di essere considerato una riserva. E va bene Baggio, ma anche Zola no però. E quindi, dopo un’amichevole in Germania nella quale Sacchi lo schiera titolare ma lo toglie alla fine del primo tempo per mettere proprio Zola, apriti cielo. Mancio ringhia l’addio a Sacchi: "Non ti servo, non mi chiamare più".

Poco tempo fa ha confessato: "L’unico vero rimpianto della mia carriera è nel rapporto con la Nazionale, con Sacchi sbagliai". E qual era il modo per ’risarcire’ l’azzurro e il suo Paese? Vincere con la Nazionale. All’epoca in cui accettò di allenare l’Italia, o quel che ne restava dopo il crac di Ventura e l’addio al Mondiale del ’94, chi scrive fu tra quelli che gli diede del pazzo, pur felicissimo della scelta. Aveva questa prospettiva da visionario che sembrava danzare con la follia. Raccontava come ce ne fossero di giocatori forti qui da noi – ma dove, Mancio? –. Che bisognava solo avere il coraggio di lanciarli e imporli. Il resto, secondo lui, sarebbe stata una conseguenza: "I club ci daranno una mano scoprendo quanto talento azzurro hanno negli spogliatoi". E lì usciva fuori Mancio l’italiano, che pareva filosofeggiare e invece era lì ad affrescare quello che poi sarebbe successo. "Noi siamo un popolo che da millenni vive seguendo la cultura, l’ingegno, il talento, l’inventiva. La testimonianza di chi siamo è nei musei di tutto il mondo, nella vita quotidiana. Noi italiani sappiamo creare la bellezza, E siamo coraggiosi".

Già, noi italiani. Alla fine Mancio l’ha fatto. Ha messo in pratica l’essere italiano usando il coraggio di imporre tanti giovani con lui divenuti star. Ha praticato la bellezza al servizio del risultato, accoppiata quasi mai raggiungibile nel calcio. Si è ingegnato inventando una nuova cultura tattica applicata al coraggio di osare e nell’esaltazione del talento. E ha convinto un pugno di ragazzi di poter essere eroi per il Paese. Italiani dei quali gli italiani saranno fieri per sempre. Perché se vinci un Europeo come l’ha fatto lui sei nella storia. Per sempre avvolto nel tricolore e fiero di essere italiano.