Isabella Potì: tecnica e cuore la mia ricetta

A 23 anni è già entrata nell’Olimpo 
dei grandi chef ma non si accontenta 
e non lo nasconde: «Ci sono almeno 
un altro paio di stelle da conquistare». Ha tecnica e grinta da vendere e dal Salento lancia la sua sfida e svela il suo segreto per ottenere sempre il massimo

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Le piace rischiare. E si sente imprevedibile. Come un soufflè. Del resto, chi non ama le sfide difficilmente riesce ad appuntarsi la stella Michelin a 23 anni. Isabella Potì, chef con il suo compagno Floriano Pellegrino del ristorante stellato Bros’ di Lecce, parla di quello che è un lavoro matto e disperatissimo. Di sacrifici, piatti gourmet, sapori salentini e la semplicità della pasta al pomodoro. Di sogni, impegno, chef televisivi e viaggi all’estero, senza mai dimenticare il proprio territorio. Un po’ la filosofia di questo primo numero di ‘Itinerari’ che ci fa scoprire il Salento di Isabella, ma spazia da Matera alla Costa degli Etruschi fino alle bellezze della Valle della Loira.

Chef stellata già a 23 anni, come si sente?

«Ho subito pensato: e ora? Lo considero uno stimolo, non un punto di arrivo. Ci sono ancora due o tre stelle Michelin da conquistare, non ci si ferma mai al primo gradino».

Intanto Forbes due anni fa l’ha messa tra i 30 under trenta più promettenti d’Europa. Qual è il segreto per raggiungere il successo così presto?

«Nessuna ‘ricetta’ misteriosa. Ma inutile nascondersi: il riconoscimento di Forbes è stato ancora più inaspettato della Stella. Noi viviamo in Salento, facciamo ristorazione qui, non a New York!».

Lei ha viaggiato molto. La Francia resta la tappa fondamentale per chi vuole diventare uno chef?

«Ci vuole tecnica per innovare. Senza tecnica, non puoi cambiare nulla. C’è chi segue la scuola francese, che è alla base della cucina, chi quella spagnola, che è quella innovativa della cucina molecolare anche se oggi è meno in voga, poi quella nordica, adesso molto popolare. Ci sono diverse scuole, insomma. Vedere quello che fanno gli altri serve a interiorizzare la tua identità, a comprendere meglio il tuo territorio, a scoprire gli ingredienti che ti accompagnano dall’infanzia».

C’è uno chef che l’ha influenzata? 

«Non mi piace parlare d’influenza ma, sicuramente, Martin Berasategui che dà il nome all’omonimo ristorante tre stelle Michelin di San Sebastian, in Spagna, è stato un grande maestro. È un po’ il padrino di me e Floriano». 

Con tutti questi premi non si è montata la testa?

«(Ride). Macché, però abbiamo grandi progetti. Io e Floriano dobbiamo ancora fare tanta strada. Per questo presto ci trasferiremo, cambieremo struttura e ci ingrandiremo. Vogliamo esplorare la nostra cucina ancor più nel profondo».

Essere chef in un mondo di uomini è stata dura?

«Il nostro mondo un po’ è cambiato, ora siamo tante donne, quello che si vuole è la parità. Ma non si può pretendere di ricevere un aiuto solo perché si è donne». 

Maschilismo in cucina?

«Io non ho avuto problemi. Ma quello che noi donne dobbiamo fare è evitare di avere un approccio differente. Se sei donna devi essere ancor più forte, soprattutto a livello mentale».

Esistono piatti maschili e femminili?

«No. Vale la gavetta, il fatto di aver lavorato sodo, il sacrificio, la passione».

Il piatto non è una questione di genere, quindi?

«No. Dipende dalla personalità del singolo. Ci sono piatti di Floriano che sembrano fatti da una donna perché delicatissimi. Non c’entra il sesso maschile o femminile, ma la propria memoria gustativa, il proprio gusto personale, la propria personalità, chi sei tu, che cosa hai fatto nella vita».

Recenti tragici fatti di cronaca hanno evidenziato che il lavoro dello chef, soprattutto ad alti livelli, è molto stressante. Conferma?

«Bisogna riuscire a gestirsi, io mi godo molto i giorni liberi. Per il resto, lavoro dalle otto di mattina a mezzanotte, spesso l’una. Quattordici, sedici, a volte anche diciotto ore al giorno. Ma è la mia passione».

Lo slogan del vostro ristorante richiama la famosa frase del Piccolo Principe, rivisitata come i vostri piatti: «L’essenziale è visibile al gusto». Qual è la filosofia della vostra cucina? 

«È una cucina minimalista, con gusti molto netti, pochi elementi ben strutturati. Ma la prima cosa è il gusto, appunto. E lo esaltiamo. Ad esempio, la cucina salentina ha sapori che a volte richiamano il rancido. Un difetto? No. Lo trasformiamo in un pregio e in un’identità del nostro territorio». 

Insomma, non nascondete le vostre origini?

«No. Puntiamo tutto sulla tradizione e per ogni periodo giochiamo su un gusto in particolare. Se c’è una festività e si mangiano determinate cose, noi le facciamo. Un esempio? Per il Santu Pati si mangia la pastenaca».

Tradizione, attenzione al territorio, impiattamento: come nascono le creazioni di Bros’?

«Una parte di noi si occupa di ricerca. I nostri piatti non sono molto elaborati. Puntiamo sui sapori, l’impiattamento è sempre funzionale al gusto. Non ce ne frega niente del bello perché è bello. La bellezza del piatto è sempre funzionale al fatto che poi lo mangi».

Le porzioni molto minimal, però, sono funzionali alla bellezza del piatto?

«No. La quantità è quella che ritengo giusta. Non penso di mettere un pezzo di carne più grande o più piccolo perché sta bene nel piatto... Non si vive di sola estetica».

Nei talent show televisivi, però, l’impiattamento spopola. Non crede che si stia esagerando con questi cooking show?

«La tv ha contribuito a creare un certo fermento nel mondo della cucina. Ormai i ristoranti gourmet non sono più per un’élite e questo grazie anche a queste tramissioni. E poi, diciamolo: sono nata negli anni Novanta, sono una millenial, e non mi stupisce il boom di reality e talent show. Ci sono cresciuta».

È stata dura affermarsi in una realtà come il Salento?

«All’inizio sì. Lecce non è  Londra, né Parigi, ma oggi il mondo del turismo gastronomico si muove e c’è molta gente che viene da noi, si ferma a dormire una notte, vuole provare la nostra cucina. Lavoriamo molto con gente di altre città e stranieri».

Lei è nata come pastry chef, la pasticceria resta la sua passione?

«Mi piace moltissimo perché permette di tenere insieme precisione e conoscenza tecnica. Non a caso il mio piatto del cuore resta il soufflè. Visto come dolce. È il mio cavallo di battaglia. In genere nei ristoranti non si fa molto spesso perché è imprevedibile. Ha una tecnica molto ferrea, ma con questo piatto ci si può giocare molto. Lo ammetto: mi piace rischiare».

Qual è stato il primo piatto con cui si è cimentata?

«A tre anni iniziai a fare miscugli con la terra, poi cominciai a impastare con mamma e nonna. Ma il primo dolce in assoluto è stato il tiramisù, anche se mia madre è polacca! E resta il mio piatto preferito».

Quando non siete al Bros, a casa chi sta ai fornelli?

«Cucino io, mi rilasso quando cucino ‘normale’. Ma cose semplicissime. Tanta frutta, verdure grigliate con un filo d’olio, pasta al pomodoro, aglio olio e peperoncino, con le rape. Tante insalate con i nostri cucumarazzi, delle specie di cetrioli, che esistono in qualche parte in Italia, in Salento e Afghanistan. Comunque piatti molto semplici, puliti, senza miscugli».

Al suo ristorante sono passati tanti clienti, vip e non. Qual è stato il complimento più bello? 

«Le lacrime. Ci sono stati casi di persone che si sono emozionate così tanto da piangere».

Qualcuno si è ‘commosso’ come il Montalbano di Camilleri... nessuno, invece, ha rimandato indietro il piatto?

«Eccome. A chi non succede? Mi è capitato con un piatto a base di ricotta forte e ricci di mare. Questione di palato. Nessuno è onnipotente».