Giovedì 25 Aprile 2024

Dal “prendersi cura” alla vera professione: come è cambiato il modo di fare assistenza

In passato / La responsabilità del badare allo stato emotivo e fisico dei malati era esclusivamente appannaggio delle donne che però erano considerate non adatte a “curare”

Gli infermieri rappresentano anche un prezioso sostegno psicologico

Gli infermieri rappresentano anche un prezioso sostegno psicologico

La differenza tra curare e prendersi cura ha caratterizzato l’assistenza infermieristica fin dalle sue origini. Con la donna considerata sempre un passo indietro rispetto all’uomo e quindi non in grado di “curare” i pazienti in senso letterale ma solo di assisterli nei momenti di maggiore di icoltà e sconforto. Mansione, questa, che invece non era riservata agli uomini, basti pensare che bisognerà attendere addirittura il 1971 perché la professione “apra” in senso ampio anche al genere maschile. Insomma ci sono voluti anni - meglio dire decenni - prima di vedere le cose cambiare, in un verso e nell’altro. E senza ombra di dubbio, già nell’Ottocento con Florence Nightingale, è stato compiuto un importante passo in avanti in questo senso con il prezioso passaggio dal “prendersi cura” alla creazione di una vera e propria professione, quella di infermiere. E in questo passaggio la donna ha guadagnato terreno diventando a tutti gli effetti colei in grado di assistere in modo concreto il paziente, fornendogli supporto fisico ma anche morale. Rispetto all’Inghilterra, ma anche a tanti altri paesi europei, l’Italia è sempre però stata un passo indietro. Per attendere il primo riferimento normativo della professione di infermiere in Italia bisogna scivolare fino addirittura al 1925, con l’apertura di alcune scuole-convitto dedicate ad una formazione di alto livello. Prevedevano corsi biennali con obbligo di internato e formavano personale. Nel 1954 nasceva poi la prima federazione italiana: il Collegio delle Infermiere che si è poi evoluto negli anni nell’attuale Fnopi (Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche). Il grande lavoro della tedesca Anna Fraentzel Celli Malaria / Una vita, la sua, dedicata alle conseguenze di questa malattia Se l’Inghilterra, già subito dopo il primo ventennio dell’Ottocento, cominciava a vedere nascere scuole di formazione mirate a investire su questa professione, in Italia il processo di specializzazione dell’assistenza è stato decisamente più lento. E nel processo di evoluzione tutto italiano, un ruolo importante lo ha rivestito Anna Fraentzel Celli, infermiera di origine tedesca trasferitasi in Italia che portò avanti la lotta contro la malaria e l’analfabetismo nell’Agro Romano e nelle paludi pontine, agendo in prima linea per aiutare dunque coloro che avevano più bisogno. Non solo: perché si impegnò in prima persona per cercare di migliorare le attività degli ospedali che continuavano a “muoversi” in modo disorganizzato e confusionario non garantendo servizi di qualità. Conclusa la sua prima esperienza nella lotta antimalarica, Anna Fraentzel Celli entrò con il marito (che era stato il suo professore universitario) a far parte del Comitato per il potenziamento dell’ambulatorio pediatrico La Scarpetta a Trastevere. Venne creata un’infermeria provvista di letti e assistenza medica e infermieristica per i bambini poveri di Trastevere e del ghetto ebraico di Roma e a Anna Fraentzel Celli furono assegnati gli incarichi di presidenza e amministrazione. Nello stesso periodo si batté con grande tenacia per dare vita a una scuola in cui lei stessa si rendeva disponibile a istruire ragazze della borghesia romana che volevano impegnarsi nell’assistenza ai malati. Aveva una convinzione, forte, che portò avanti fino all’ultimo: che infermiere e infermieri dovessero essere laici. Anna Fraentzel Celli è stata dunque una donna che per l’Italia ha significato tanto, che ha rischiato per aiutare gli altri e che non si può dunque non menzionare quando si parla di assistenza infermieristica nel nostro paese.