Martedì 23 Aprile 2024

Micaela Piccoli: la virtuosa del bisturi, leader dei chirurghi

Micaela Piccoli

Micaela Piccoli

“Nessuna difficoltà di genere, ero l'unica donna al concorso nazionale da primario e sono arrivata prima. La famiglia è con me”

NATA IL 23 aprile 1967 a Roma LAUREA: Medicina, specializzazione in chirurgia generale LAVORO: Primario di chirurgia HOBBY: Scrive poesie, colleziona portatovaglioli d'argento dell'800 e facciate delle case da tutto il mondo in ceramica e legno

Sacrifici, passione, a volte lacrime ma soprattutto una grande soddisfazione: essere una delle pochissime donne in Italia primario di chirurgia generale. Da gennaio 2017 Micaela Piccoli è direttore della chirurgia generale d’urgenza e nuove tecnologie di Baggiovara, a Modena.

Come nasce la passione per la professione medica?

«Fin da piccola ho vissuto l’aspetto romanzato della figura del dottore. Avevo un bisnonno ed un nonno medico che non ho mai conosciuto, e una nonna meravigliosa che mi raccontava delle bellissime storie del suo papà, con il mantello in calesse che andava a visitare i pazienti o del marito che ha affrontato due guerre come ufficiale medico. E giocavo con le ampolle e gli strumenti del nonno a fare il dottore in quello che anni prima era stato il suo ambulatorio».

Quindi ha deciso da bambina?

«Avevo 7 anni quando vidi il film Viaggio allucinante: gli scienziati all’interno di un sottomarino, ridotto alle dimensioni di una cellula e iniettato in una arteria, compivano un viaggio nel corpo umano, per eseguire un delicato intervento chirurgico, e uscivano dal corpo grazie ad una lacrima. Dissi a mio padre che volevo fare il medico, con l’idea che un giorno sarei riuscita a volare su un globulo rosso».

Quanto tempo è passato prima di entrare in sala operatoria?

«Ho visto il primo intervento al secondo anno di Università, in un reparto di chirurgia dove si accettavano studenti frequentatori».

Ed è rimasta folgorata...

«Un’emozione così forte che l'ho ancora ben impressa nella mente. Io che, ancora oggi non riesco a guardare al cinema scene di sangue, da quel giorno non sono più uscita da una sala operatoria».

Durante gli studi, qualcuno le ha mai messo i classici bastoni tra le ruote solo perché era una donna?

«Nessuna difficoltà. Mediamente le donne anche in medicina risultano più brave ed hanno dei voti più alti. Mi sono laureata in corso, a 24 anni, con il massimo dei voti e non ho avuto dubbi a scegliere chirurgia come specialità».

Vera parità di genere, quindi?

«Durante la specialità capitava che al tavolo operatorio mi chiamassero “signorina” mentre si rivolgevano al “dottore” tuo coetaneo e collega, o che il paziente che ti scambiasse per una infermiera....».

Come reagiva?

«Col senso del dovere di dimostrare quello che valevo. Però è andato tutto molto fluidamente».

Lei ha studiato anche all’estero: un passaggio fondamentale?

«Durante la specialità ho avuto la possibilità, grazie alla lungimiranza del professor Saviano, di trascorrere periodi in Francia, Germania e Stati Uniti e di tornare in Italia con un bagaglio culturale che mi ha permesso un alto livello competitivo».

E dopo la specializzazione?

«Ho avuto l’ulteriore fortuna di entrare in un gruppo prestigioso come quello della chirurgia del vecchio Sant’Agostino, guidato allora dal dottor Melotti, uno dei pionieri della chirurgia laparoscopica. Mi sembrò la realizzazione di un sogno insperato».

Era la prima donna nel gruppo?

«No, prendevo il posto di un’altra donna chirurgo che andava in pensione e che però non era stata destinata per così dire ad una chirurgia maggiore».

Quanti anni aveva?

«Trenta anni. Venni accolta come la “squinzia” (ragazzina) del gruppo ma mi hanno sempre trattato con rispetto e senza alcuna prevenzione. Ho avuto spazio per crescere e dimostrare, pur spremuta come un limone, quello che valevo ma soprattutto quello che volevo».

Facile o difficile arrivare al vertice?

«Per prendere il posto del mio maestro ho partecipato ad un concorso nazionale in cui ero l’unica donna candidata tra tanti. E sono risultata prima in graduatoria, un esito che ha valorizzato un intero percorso di vita».

Cosa significa essere un primario di chirugia generale?

«È un onore ed un onere. Devo mantenere e se possibile migliorare uno standard molto alto. Devo essere un buon manager, in grado di valorizzare le risorse umane, ma soprattutto un buon chirurgo, il chirurgo che il gruppo riconosce come leader».

Come è composta la sua équipe?

«Ci sono 15 chirurghi, 13 uomini e due donne».

Una sfida particolare?

«Non ho avuto mentori donne, ma ho l’occasione di esserlo per le mie colleghe e le giovani specializzande. Una bella occasione e un impegno: devi essere un esempio».

Quante sono le donne con il suo ruolo in Italia?

«Ora siamo quattro. Sono stata la seconda, in ordine di tempo, ed è accaduto solo due anni fa»

Quindi qualcosa sta cambiando?

«Spero di sì: oggi oltre il 60% degli iscritti in specialità di chirurgia generale sono donne».

Quanto conta la famiglia?

«Mio marito e la mia famiglia non mi hanno “mollato” anche nei momenti più difficili, quelli in cui avere una moglie in “corriera” (come dice mio marito) avrebbe potuto comportare decisioni alternative».