Mercoledì 24 Aprile 2024

Chiara Saraceno: la donna in cattedra per emancipare le donne

Chiara Saraceno

Chiara Saraceno

"Ho pagato prezzi altissimi per i miei studi di rottura. Il mio rimpianto? Volevo fare l'attrice"

NATA IL 20 ottobre 1941 a Milano LAUREA: Filosofia LAVORO: sociologa, professoressa universitaria HOBBY: viaggi e teatro 

«E DIRE che volevo fare l’attrice...»

Chiara Saraceno, sociologa di fama internazionale, quando era adolescente sognava di frequentare la scuola del Piccolo Teatro a Milano. La vita, poi, l’ha portata su un’altra strada: una laurea in filosofia alla Cattolica con tesi sull’etica protestante di Max Weber, cattedre all’Università di Trento e Torino e studi sociologici su famiglia, rapporti di genere, povertà.

Professoressa, com’è passata dal palco alle cattedre universitarie?

«In famiglia non piaceva molto l’idea che facessi l’attrice e, prima ancora che mi venisse proibito, rinunciai. La mia famiglia comunque non avrebbe apprezzato. Ma ammetto che, in quel caso, non feci nessuna battaglia: mollai subito. Forse è l’unico rimpianto che mi è rimasto: non saprò mai che cosa sarebbe successo se avessi insistito...».

Nessun altro rimpianto?

«Sono stata fortunata. Tutto quello che volevo fare l’ho fatto e, per quanto riguarda la vita personale, sono molto soddisfatta. Ho avuto due figlie gemelle, sono nonna. Ecco, se proprio devo dire, forse avrei voluto fare molti più viaggi, ma ora sono troppo avanti con gli anni. Comunque, in definitiva, il bilancio è positivo, ma...».

Ma?

«Ho pagato prezzi anche molto alti per tutti i miei studi e le mie idee, ma nonostante tanti sforzi, incontri importanti anche con influenti rappresentanti del mondo politico, mi rimane la delusione: la società non è cambiata come avrei voluto».

Quando ha capito di non avere, in parte, centrato l’obiettivo?

«Una mia collega, molto più giovane, mi ha detto: ‘Ho letto una tua cosa degli anni ’70 e si potrebbe scrivere ancora oggi...’. Continuare a essere profeti a 40 anni di distanza non è il massimo».

Pensando alla sua carriera, essere donna l’ha condizionata?

«Il mondo accademico italiano è maschilista. Quando sono diventata professore ordinario, le donne erano solo il 10 per cento. Ma, devo dire la verità, non ci sono stati solo svantaggi».

Un esempio positivo?

«Il fatto di essere una studiosa femminista nel momento in cui il femminismo non era solo un movimento internazionale, ma anche una comunità di studiose, mi ha favorita. Nel 1986, c’era il governo Craxi, feci parte della commissione nazionale sulla povertà presieduta da Ermanno Gorrieri. Non ero un’esperta, ma una donna che si occupava di donne. In pratica, sono stata nominata per questo motivo. Da qui, però, ho avuto lo stimolo per studiare la povertà in modo approfondito».

C’è, invece, qualche caso in cui essere donna l’ha penalizzata?

«Ho pagato prezzi altissimi. Persi un concorso universitario, e qualche commissario giudicò: ‘Lei ha distrutto la famiglia italiana’. Nel mondo accademico non è stato facile applicare studi di rottura su donne e famiglia. C’erano ostacoli fortissimi, però non ero isolata, bensì facilitata dal clima culturale internazionale del tempo».

Oggi abbiamo pareggiato il ‘gap’ con gli uomini?

«Da quasi trent’anni le donne studiano più degli uomini. Poi sul fronte famiglia, c’è maggiore simmetria d’istruzione tra lei e lui e le leggi su congedi e divorzi hanno creato condizioni migliori. Inutile nascondere i passi da gigante in tanti campi, per non parlare poi della contraccezione: le prime pillole erano ‘botte’ terrificanti, quasi proibite».

Punti dolenti?

«Cambiano le aspettative. Oggi le donne si aspettano di essere pari agli uomini, ma poi si scoprono dispari. I modelli di genere restano rigidi e, quindi, nella maggior parte dei casi la divisione del lavoro famigliare resta asimmetrica, più a sfavore della donna».

Il nostro sistema di welfare è inadeguato?

«Non si è attrezzato al cambiamento. Anche una misura come ‘opzione donna’ in realtà non aiuta. In pratica dice: vai pure in pensione prima, ma a spese tue. Poi c’è il part-time, sempre più difficile da ottenere volontariamente, permane il divario del welfare tra Nord-Sud e, infine, resta sempre inalterato il fatto che il 20% delle donne lascia il lavoro per motivi famigliari (la maggior parte delle volte, per una maternità)».