Isabella Pelizzatti Perego: il Nebbiolo in famiglia

La figlia di Arturo, l'uomo del rilancio negli anni Ottanta, gestisce l'azienda Arpepe insieme ai fratelli Guido ed Emanuele. Il Sassella Rocce Rosse 2007 è tra i migliori vini italiani "In Valtellina i giovani hanno riscoperto l'amore per la viticoltura"

Il mondo del vino protagonista a Lariofiere

Il mondo del vino protagonista a Lariofiere

SONDRIO, papà Arturo ne sarebbe fiero. Del resto era stato lui, nel 1984, a rilanciare l’azienda storica che il padre Guido aveva dovuto in buona parte cedere per motivi di salute e a scommettere sul Nebbiolo, vitigno mitico della sua Valtellina che ricama i pendii scoscesi delle Alpi Retiche, tra terrazzamenti scavati nella roccia e riempiti di terra del fondovalle. Oggi sono i suoi tre figli a portare avanti la grande tradizione di Arpepe, azienda letteralmente mimetizzata nella montagna a fianco di Sondrio. Ed è lei, Isabella Pelizzatti Perego, assieme ai fratelli Emanuele e Guido, il volto e la voce di questa bella parabola della viticoltura eroica sulla sponda Retica dell’Adda.

Il vostro ‘Sassella Rocce Rosse 2007’ sta vivendo il suo momento di gloria. «Si è recentemente piazzato al sesto posto nella classifica dei 50 migliori vini italiani e sono in arrivo altri importanti riconoscimenti per questo prodotto che matura 4 anni in botti grandi e dà il meglio di sé dopo un affinamento prolungato in bottiglia. La produzione è limitata: tra le 10 e le 18mila bottiglie. Ma resta l’icona della casa, un prodotto che realizziamo solo nelle migliori annate».

Certo che la Valtellina del vino non è più quella di un tempo. «Alcune discutibili operazioni imprenditoriali negli anni Settanta hanno influito sulla qualità e il graduale abbandono della montagna ha tolto manodopera e passione. Siamo passati dai 5mila ettari vitati di un tempo agli attuali 800. Ma negli ultimi anni stiamo assistendo a una rinascita: è triplicato il numero delle aziende che vinificano in proprio e molti giovani, grazie alla viticoltura, hanno ritrovato il senso di appartenenza alla loro terra».

Il vostro ‘Ultimi Raggi’ è una sorpresa. «È la nostra vendemmia tardiva e proviene dai terreni che si trovano a quote elevate, attorno ai 600 metri. Ha una ricchezza e una concentrazione maggiori rispetto alle nostre tradizionali riserve, ma senza che questa corposità vada a scapito del facile approccio per chi lo consuma».

Quindi la tesi che i vini valtellinesi siano pesanti è pura eresia? «È così. Anche rispetto a quello della Langa piemontese, il nostro Nebbiolo rivela maggiore freschezza e mineralità: è in grado di esaltare abbinamenti classici con i piatti della tradizione, sciatt, pizzoccheri, selvaggina, ma anche con il pesce. Ovviamente vanno rispettati certi accorgimenti. Per il Sassella Rocce Rosse la temperatura ideale sui 15 gradi esalta meglio il suo profilo aromatico, i sentori di ciliegia e tabacco e le note ematiche e di pepe».

In vigna come nella vita: per andare avanti, ogni tanto bisogna tornare indietro? «Nostro padre ci ha insegnato ad avere rigore e a rispettare il giusto tempo di attesa, ben sapendo che in cantina servono tini, botti grandi, vasche in acciaio e cemento ma anche un sacco pieno di pazienza e che la vigna è metereopatica: nulla è regalato. E così, a 600 metri di altitudine, continua ad avere senso impegnare 1.500 ore di lavoro l’anno per ogni ettaro, quando alle aziende vitivinicole che si trovano in collina bastano 400 ore. La Valtellina è così: una regione vitata che può produrre al massimo 4 milioni di bottiglie. A ben guardare, è una goccia di vino nel mare enologico del mondo. Ma che goccia!».