Sabato 20 Aprile 2024

L'eterna bellezza del Mart di Rovereto

In mostra fino a novembre cento capolavori che raccontano l'anti-avanguardia: i sette pittori di Margherita Sarfatti che costruiscono il "ritorno all'ordine" del Gruppo di Novecento

Alberto Savinio

Alberto Savinio

 

ROVERETO _ Sgombriamo subito il campo da due equivoci in cui è facile cadere. Il primo riguarda il titolo: “Un’eterna bellezza” non ha niente a che vedere con Paolo Sorrentino e la cubista vaiassa alla festa di Jep Gambardella ma si rifà al concetto di classico. Che vuol dire, da sempre, eterno, assoluto. Secondo: la bella figura in primo piano che presta il volto alla mostra, capelli alla Crepax, labbra carnose e pensieri trascendenti, icona femminile attualissima insomma, altri non è che il giovin figliolo di casa Gualino, imprenditore torinese, ritratto da Casorati nel ’24. Per il resto la mostra _ appena arrivata da Madrid, in collaborazione con la Fondazione Mapfre, quasi centomila visitatori _ è un viaggio vorticoso attorno alla fissità, alle atmosfere rarefatte, alle disarmanti magie, ai nudi scandalosi o neoplatonici, ai volti incantati, alle periferie che salgono, alle nature morte che sembrano di cera.

Un codice identificativo, un modo per guardare avanti, per superare il Futurismo e la Metafisica richiamandosi alla suggestione della classicità. Ritorno all’ordine che dà sicurezza, fa recuperare i valori e fa ritornare al mestiere (come suggeriva De Chirico), ma è allo stesso tempo un bel termine di paragone, una prova difficile. Mettersi in rapporto con Piero della Francesca, come fa nel ’22 Felice Casorati quando ritrae Silvana Cenni come se fosse la Madonna della Misericordia di quasi cinque secoli prima, significa re-interpretare e non imitare. Antichità come dimensione del sogno, rinascimento come radici formali: giusto il binario di analisi di Daniela Ferrari, curatrice della mostra con Beatrice Avanzi, sotto la regia del direttore del Mart, Gianfranco Maraniello. 

Eterna Bellezza

Ed è strana la parabola comunicativa di Margherita Sarfatti e del suo gruppo di Novecento, nato nel salotto milanese del mercoledì. <L’arte nuova tanto più sarà classica, quanto meno incapperà nel classicismo>, professava lei, intellettuale e ovviamente amante del Duce, che costruisce l’homo novus per il Fascismo attraverso i sette artisti di Novecento. Casorati, Oppi, Sironi, Marussig, Dudreville, Funi e Bucci espongono nel ’22 alla Galleria Pesaro, due anni dopo alla Biennale di Venezia, nel ’26 Mussolini presiede all’apertura della loro mostra alla Permanente e poi il declino, le accuse violente, nel ’31 sono diventati nemici e si dissolvono tra le polemiche. Puf. Non servono più, probabilmente. Il potere è stato raggiunto, l’estetica deve dare la sicurezza dell’hic et nunc e non sfuggire verso l’idillio del tempo classico. Quel tanto di rivoluzionario, di <grido di liberazione> che la Sarfatti proclamava, con quel suo cognome di radice ebraica che faceva storcere il naso a molti, cede quindi il passo all’iconologia statuaria del vir, michelangiolesco oltremisura, supereoe in camicia nera.

Questa mostra, oltre cento capolavori divisi per generi, porta il suo contributo critico (quindi: si può fare ricerca e staccare migliaia di biglietti) a evidenziare la ventata di bellezza che poi si propaga ad altri maestri del Novecento, da Morandi a Martini, a Wildt, a Cagnaccio di San Pietro. Ci riesce Casorati con i nudi asessuati del Concerto (1924) dagli echi masacceschi (il Battesimo dei Neofiti della Cappella Brancacci a Firenze) e, perché no, ingresiani. Il concerto dell’armonia divina e la nudità platonica dell’idea. Gli enigmi delle piazze vuote di De Chirico e il mito degli Argonauti di suo fratello Savinio costituiscono la prima delle sette sezioni in cui si articola la mostra.

Si approfondisce l’antico (il Ritratto di signora di Massimo Campigli, del ’24) e il tema del ritratto, con un capolavoro come Donne per le scale di Antonio Donghi del 1929, muta elegia di chiacchiere condominiali, un classico appunto. Si passa quindi al Nudo, come quello di   Marussig con la sensualità della sua Venere, che fu di Tiziano e poi di Manet. Il paesaggio visto con gli occhi  di Sironi ne L’Attesa (1931), una figura divenuta statua attende lo sbarco di una nave scultura, un tempo lontanissimo che incarta i sentimenti. E la poetica degli oggetti quotidiani con una Natura morta del ’21 di Giorgio Morandi che fa emergere bottiglie e dettagli man mano che l’occhio si adegua al contorno per arrivare infine a celebrare le stagioni della vita con il Filo d’Oro di Adolfo Wildt, volto di fanciulla in marmo e senza occhi.