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Protesi d’anca, ginocchio, spalla: due tecniche, un solo obiettivo

Lo specialista valuta caso per caso se seguire la procedura minivasiva o tradizionale, in base al tipo di paziente

23/01/2022

Cosa bisogna sapere se per recuperare la funzionalità di un’articolazione bisogna ricorrere a un intervento chirurgico? Come spiega Gianni Nucci, medico chirurgo ortopedico, la scelta della tecnica non deve seguire “una moda” ma va valutata caso per caso. E al Santa Rita Hospital si effettuano interventi di sostituzione protesica con una tecnica mininvasiva o tradizionale, una scelta che viene effettuata in base al tipo di paziente.

 

Il dottor Nucci ricorre a tecniche mininvasive, precisando che la mininvasività è un concetto che non c’entra con la lunghezza della ferita chirurgica, ma significa cercare di danneggiare il meno possibile le strutture muscolari e tendinee che stanno intorno all’articolazione, sostituire l’articolazione nella maniera più veloce e precisa possibile, e con il minor danno per il paziente, quindi con una diminuzione della perdita di sangue e delle probabilità di contrarre infezioni. Infine la persona operata avrà una ripresa più rapida.

 

La chirurgia protesica delle articolazioni riguarda soprattutto il ginocchio, l’anca, la caviglia e la spalla: sono le protesi che vengono più frequentemente impiantate. Questi interventi chirurgici sono i più richiesti da persone di una certa età, ma possono riguardare anche quelle giovani.

 

Ad esempio il dottor Nucci ha operato una donna di 35 anni che nel 2011 aveva subito un intervento per una frattura dell’acetabolo (la parte di bacino che si articola con il femore) e una lussazione dell’anca a seguito di un incidente. A distanza di un decennio, a causa di seri problemi di deambulazione, si è rivolta agli specialisti di Ortopedia e Traumatologia del Santa Rita Hospital a Montecatini Terme, dove è stata sottoposta a un intervento di protesi all’anca particolarmente delicato e complesso, che le ha consentito di riprendere una vita normale dopo solo un mese, e di tornare al lavoro dopo due.

 

Una protesi ha la durata di una ventina d’anni – ma molto dipende dall’utilizzo che ne fa il paziente, dalla qualità dell’osso, e da altri fattori –, quindi è meglio se si riesce a impiantarla il più tardi possibile. Ciò non vuol dire che la protesi non debba essere messa anche a una persona giovane, se le alterazioni delle articolazioni sono tali da ridurne la qualità della vita.

 

Nel tempo, l’usura della protesi porta alla necessità di una sostituzione, ovvero occorre toglierla e metterne al suo posto una nuova, ma in quel caso l’osso sarà un po’ più carente rispetto alla volta precedente, quindi si utilizzeranno delle protesi particolari che sia agganciano in maniera diversa all’osso. Questo può portare dopo l’intervento chirurgico ad un recupero un pochino più lento rispetto a quello avuto dopo il primo impianto, ma ciò non vuol dire che il paziente non possa ritornare dopo due o tre mesi a fare una vita simile a quella precedente.

(Gloria Ciabattoni)