di Franca Ferri
"Vogliamo curare di più e curare meglio i bambini malati di tumore. Per questo fare ricerca è fondamentale": sono chiari gli obiettivi del professor Andrea Biondi (nella foto piccola a destra), professore ordinario dell’Università degli studi di Milano, direttore della Clinica pediatrica della Fondazione MBBM dell’Ospedale San Gerardo di Monza, uno dei centri italiani di punta per la cura delle neoplasie ematologiche pediatriche, nonché direttore scientifico della Fondazione Tettamanti. L’occasione sono i prossimi Giorni della Ricerca, con cui Fondazione AIRC accende i riflettori sull’universo cancro per informare sui recenti progressi della ricerca oncologica e per raccogliere nuove risorse da destinare al lavoro dei ricercatori.
Quanti sono in Italia i pazienti con queste patologie?
"Ogni anno curiamo, nei centri Aiop, circa 1450 bambini e adolescenti fino a 14 anni, e circa 800 ragazzi fra i 14 e i 18 anni. Di questi 2250 pazienti, l’80% ha la probabilità di guarire. Il nostro protocollo di diagnosi e cura, che viene applicato in tutta Italia, con la massima collaborazione fra i diversi centri, è uno dei nostri successi più importanti ".
Cosa significa quindi ’curare di più’?
"La sfida è curare con successo anche quel 20% di pazienti che oggi non ce la fa".
E ’curare meglio’?
"Fare in modo che il bambino che supera il tumore sia un adulto che deve essere considerato sano, e non malato cronico. Ad esempio, cerchiamo di prevenire gli effetti nocivi della terapia sulla successiva qualità di vita, dopo la guarigione".
Quanto conta la ricerca?
"Negli anni ’80 si parlava di ’tumori nel bambini’ in modo indistinto. Oggi sappiamo che, pur essendo in gran parte neoplasie ematologiche, c’è una estrema eterogeneità: grazie al sequenziamento del Dna abbiamo una ’patente genetica’ superdettagliata che aiuta ad indirizzare al trattamento più mirato. Abbiamo farmaci di diversi tipi: molecolari, oppure basati sul potenziamento del sistema immunitario, e altro ancora".
Come vengono seguiti oggi i pazienti guariti?
"Con il ’passaporto del guarito’, uno strumento ideato col collega Riccardo Haupt del Gaslini di Genova, e messo a regime grazie alle strutture informatiche del Cineca di Bologna e ad Aiop per il versante della privacy. È stato assunto come standard a livello europeo".
Cos’è e come funziona?
"Il passaporto registra tutti gli stadi della malattia e le cure fatte, e aiuta a valutare i rischi futuri in base alle terapie messe in atto: ad esempio, se il bambino-paziente ha ricevuto farmaci cardiotossici, si dovrà tenere sotto controllo più attentamente il cuore dell’adulto. Questo ci consente un monitoraggio degli effetti a lungo termine: l’obiettivo è arrivare a identificare ’prima’ della somministrazione i pazienti a rischio tossicità".
La terapia più rivoluzionaria?
"Un protocollo front-line, con farmaci che derivano da studi sulle ricadute. In pratica, dalla modulazione del rischio sono stati sviluppati nuovi farmaci. Non era mai accaduto nei 35 anni in cui me ne sono occupato"
Un miracolo, o quasi?
"No, la ricerca non procede per miracoli, ma con il lavoro puntuale di tanti ’operai’ che contribuiscono ai passi avanti. Un caso esemplare sono le ricerche sostenute da Airc, che in modo rigoroso, competitivo e controllato è sempre stata al mio fianco nel percorso di medico e ricercatore, fin dalla prima borsa di studio ad Harvard nel 1982".
Come si aiutano i genitori dei bambini malati?
"Innanzitutto il genitore deve sentirsi accolto, e deve scattare un rapporto di alleanza coi medici: lottiamo insieme per uno stesso traguardo. Senza dimentare il supporto che arriva da molte e importanti associazioni di volontariato".
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