Infarto, un audit per salvare il cuore. "Mortalità dimezzata dopo angioplastica"

Furio Colivicchi, past president dei cardiologi Anmco, commenta gli indici di sopravvivenza. Continuità terapeutica e riorganizzazione dei percorsi

di ALESSANDRO MALPELO -
17 maggio 2024
Artificial plastic model of human heart standing against background of cardiologist closeup

In Italia, ogni anno si registrano in media 140mila casi di infarto miocardico acuto. Le statistiche riportate da Agenas parlano di 110mila ricoveri, e di 25mila persone infartuate che muoiono prima di arrivare in ospedale. Ma cosa succede alla maggior parte delle persone che vengono salvate,  una volta tornati a casa dopo una rivascolarizzazione in emodinamica? La mortalità entro un mese dalla dimissione è dell’8%. Nelle persone che sopravvivono a un infarto una quota oscillante tra il 16% e il 20% muore entro 12 mesi dal ricovero, i numeri sono questi. Che fare allora per migliorare ulteriormente i margini di sopravvivenza in presenza di cardiopatie? Risponde Furio Colivicchi, direttore della Cardiologia Clinica e Riabilitazione dell’Ospedale San Filippo Neri di Roma e coordinatore nazionale del programma Audit Clinico di ANMCO, Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri.

 

Una volta dimessi dall’ospedale dopo un infarto inizia un percorso pieno di speranze, ma disseminato anche di incertezze e difficoltà. A cosa si devono questi alti e bassi?

“Grazie alle tecniche di rivascolarizzazione abbiamo ridotto la mortalità entro i 30 giorni, un indice che un tempo superava il 15%. La mortalità fuori dall’ospedale tuttavia si verifica per via delle interruzioni nelle terapie, e delle carenze nella riabilitazione cardiologica. I casi a esito infausto si verificano quanto manca un adeguato follow-up territoriale”.

 

Quale sarebbe il percorso clinico ideale?

“Un rapido trasferimento del paziente nella sala di emodinamica per l’angioplastica, procedura che ha dimezzato la mortalità negli ultimi dieci anni. Dopodiché dobbiamo gestire le condizioni che hanno causato l’infarto e assicurare che i risultati ottenuti durante il ricovero siano mantenuti”.

 

Lei intravede margini di miglioramento?

“Assolutamente sì. Dopo la dimissione, i pazienti dovrebbero essere inseriti in un percorso diagnostico terapeutico assistenziale di medio-lungo termine. Purtroppo, la presa in carico territoriale si è rivelata spesso fragile o frammentata, non è una regola generale, si osservano discrepanze tra una regione e l’altra, come pure esiti diversi in aree diverse dalla medesima regione, e non è una questione Nord-Sud. Grazie ai fondi del PNRR, a partire dal prossimo Piano Sanitario Nazionale, speriamo di migliorare questa situazione”.

 

Primo punto, defibrillatori e tempestività delle cure. Come siamo messi?

“La mortalità durante il ricovero e dopo le dimissioni è una delle nostre principali preoccupazioni. Abbiamo adottato un approccio organizzativo per garantire che i pazienti colpiti da infarto siano ricoverati e sottoposti ad angioplastica il più rapidamente possibile. La Fondazione Per il Tuo Cuore ha giocato un ruolo chiave nell’informare il pubblico sull’importanza di cercare immediatamente assistenza da parte del medico in caso di dolore toracico”.

 

Quali passi avanti sono stati fatti all’interno degli ospedali?

“Abbiamo lavorato a stretto contatto con le istituzioni per sviluppare procedure e protocolli che accelerassero l’accesso alla sala operatoria. Grazie a questi sforzi, l’Italia è tra i leader mondiali per l’accesso rapido efficace all’angioplastica. Inoltre, abbiamo promosso studi osservazionali e identificato le strategie terapeutiche più efficaci, migliorando così la qualità delle cure”.

 

E fuori dall’ospedale, quando i nodi vengono al pettine?

“Effettivamente, i dati mostrano che il problema si presenta dopo la dimissione. Nonostante i progressi all’interno dell’ospedale, il follow-up territoriale rimane una questione aperta. Abbiamo collaborato con Aifa per rendere accessibili i nuovi farmaci, ma è necessario un sistema di assistenza post-ricovero più robusto”.

 

Da qui è partito il progetto di audit clinico presentato a Rimini al congresso dei cardiologi italiani. Cosa significa avviare un audit?

“L’audit è uno strumento fondamentale, che ci permette di valutare e migliorare la qualità delle prestazioni sanitarie. In questo progetto, abbiamo coinvolto 50 ospedali e 500 cardiologi per analizzare l’impiego della terapia farmacologica post-angioplastica. Abbiamo raccolto dati, indicatori di qualità e fornito feedback ai centri coinvolti. Questo processo ha portato a un’attività formativa mirata al miglioramento continuo delle cure e dei percorsi organizzativi. Mostra come, soprattutto da parte delle cardiologie italiane, ci sia una volontà precisa, una propensione a impegnarsi nel miglioramento della qualità delle cure offerte ai pazienti”.

 

Può anticipare le conclusioni di maggiore interesse?

“Dall’indagine emergono informazioni rilevanti. I pazienti che giungono alla nostra osservazione presentano un carico pesante di fattori di rischio e di eventi ischemici cardiaci e questo significa che la loro condizione clinica precedente l’infarto è stata gestita in modo inadeguato. Sono pazienti con percentuali molto elevate di diabete, ipercolesterolemia e ipertensione. In secondo luogo, i pazienti sono trattati durante il ricovero ospedaliero in maniera impegnativa e attenta, la maggioranza viene sottoposta ad angioplastica, la quasi totalità esegue la coronarografia: questo significa che le cardiologie lavorano ottimamente. Terzo elemento, è cambiato il modo di trattare alcuni aspetti fondamentali nella genesi e nella progressione della malattia vascolare aterosclerotica che porta all’infarto, in particolare l’ipercolesterolemia”.

 

Dal punto di vista della condotta terapeutica?

“Emerge che i cardiologi italiani impiegano una terapia di combinazione, mettendo insieme più farmaci per ridurre il cosiddetto colesterolo cattivo, o LDL, nei soggetti infartuati. La terapia di combinazione è stata proposta solo di recente all’attenzione della comunità cardiologica internazionale: quindi il cambiamento nei comportamenti dei medici è stato molto rapido e si è ulteriormente diversificato, come abbiamo potuto appurare”.

 

Alla luce dei risultati, quali sono i principali indicatori sui quali i centri di cardiologia dovranno lavorare, nel post infarto?

“Premetto che i cardiologi del Servizio sanitario nazionale impiegano al meglio risorse e farmaci, ottenendo il massimo, in una percentuale di casi mai descritta finora nella letteratura scientifica internazionale. Le terapie innovative con farmaci biologici, come gli anticorpi monoclonali anti-PCSK9 per la cura dell’ipercolesterolemia, vengono utilizzate in misura maggiore rispetto al passato, e proprio in quella fascia di pazienti più gravi in cui la probabilità di una recidiva dell’infarto è molto alta. Risultati, questi, di grande soddisfazione per la cardiologia”.

 

Le prognosi, gli esiti una volta fuori dall’ospedale, devono quindi fare un ulteriore passo avanti. Si evidenzia l’importanza di assicurare una continuità delle terapie e della riabilitazione cardiologica.

“Ci sono margini rilevanti per ridurre la mortalità post infartuale, e per tali ragioni abbiamo voluto guardare cosa succede dentro le nostre cardiologie e attivare un processo interno di verifica, valutazione e formazione volto a qualificare il governo clinico, l’attività delle strutture cardiologiche ospedaliere e la gestione del paziente con sindrome coronarica acuta. Anmco ha trovato in questo progetto di pubblico interesse un alleato virtuoso come Amgen, sensibile a questi specifici temi. Da questa alleanza è scaturita la possibilità di realizzare un percorso di miglioramento della qualità delle cure che ad oggi è senza precedenti”.

 

Cosa resta da fare?

“Dobbiamo favorire il miglioramento della pratica clinica nei confronti dei pazienti con infarto per garantire loro trattamenti ottimali dopo le dimissioni ospedaliere, e ridurre così le recidive. Parte integrante di questo impegno è la costruzione della continuità assistenziale nel territorio, in modo da non disperdere quanto si fa durante il ricovero e aiutare i pazienti ad affrontare la riabilitazione cardiologica, continuare nel tempo i controlli e proseguire nell’arco della vita le terapie avviate in ospedale. Oggi ci confrontiamo con un’assistenza cardiologica territoriale ancora molto frammentata. L’auspicio è che tale situazione possa migliorare a fronte dei fondi messi a disposizione e in prospettiva con l’adozione del nuovo Piano Sanitario Nazionale”.

 

L’approfondimento continua. Link alla scheda

 

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