Si può essere resistenti all’Alzheimer? I casi che hanno lasciato i medici a bocca aperta

Esistono persone che, nonostante la presenza di placche e la predisposizione genetica, non si ammalano mai. Ecco cosa succede nel loro organismo

di MARINA SANTIN
7 marzo 2025
Si può sviluppare una resistenza all'Alzheimer?

Si può sviluppare una resistenza all'Alzheimer?

É il terzo caso documentato al mondo. Protagonista, un ex meccanico delle grandi navi, destinato a sviluppare il morbo di Alzheimer a esordio precoce, entro i 50 anni, in seguito a una mutazione sul gene PSEN2. A trasmettergliela, la madre, così come era avvenuto per altri dieci dei suoi tredici figli.

Tutti i fratelli avevano già sviluppato la malattia neurogenerativa e demenza, mentre lui, superati ormai i 70 anni, non aveva ancora dato nessun segnale di declino cognitivo, mostrando, come descritto dalla rivista Nature Medicine, una sorta di “resistenza” all’insorgere di Alzheimer giovanile.  

La mutazione  

L'uomo aveva una mutazione sul gene preselinina 2 (PSEN2), una variante a trasmissione autosomica dominante, ovvero una modalità di trasmissione ereditaria, in cui un genitore con una copia mutata di uno dei due geni (oltre a essere a sua volta malato) ha una possibilità su due di trasmettere al figlio la malattia. Questa mutazione, porta il cervello a produrre una forma di proteina amiloide più incline a creare aggregati neurotossici. Chi, purtroppo, la possiede svilupperà la malattia di Alzheimer attorno ai 50 anni.

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Nessun segno di Alzheimer  

Dal 2011 l’intera famiglia dell’uomo è stata coinvolta in uno studio chiamato Dominantly Inherited Alzheimer Network (DIAN), un progetto internazionale con l’obiettivo di individuare i potenziali biomarcatori che possono contribuire allo sviluppo dell'Alzheimer nelle persone con mutazioni che predispongono alla malattia. Quando l'uomo, all'età di 61 anni, ha contattato i ricercatori della Washington University di St. Louis (Missouri) dove è tutt’ora in corso la ricerca, il team di neurologi guidato da Jorge Llibre-Guerra ha scoperto che, sebbene fosse portatore della mutazione sul gene PSEN2, possedeva ancora una perfetta salute cognitiva.  

Placche innocue  

A stupire ulteriormente i ricercatori, il fatto che il cervello dell’uomo era pieno di placche beta amiloide, il sintomo più riconoscibile dell'Alzheimer, ritenuto anche la causa primaria della morte neuronale responsabile dei danni cognitivi causati dalla malattia.

Un’evidenza che contraddice l’universalità dell’ipotesi amiloide, ovvero l'idea che sia l'accumulo di placche amiliodi nel cervello a causare la neurodegenerazione tipica della malattia.

Inoltre, la PET ha evidenziato che nel cervello dell’uomo era presente un moderato accumulo di grovigli di proteina tau (un altro segno neurologico caratteristico dell’Alzheimer), ma solo all'interno dei neuroni del lobo occipitale, incaricato delle funzioni visive, una zona solitamente non colpita dall’Alzheimer.

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Resistenza all'Alzheimer  

L’uomo è stato seguito per oltre un decennio e i ricercatori l’hanno sottoposto periodicamente a differenti test di memoria e altre valutazioni cognitive per verificare se avesse realmente sviluppato una “resistenza” all'Alzheimer. Negli anni non ha mostrato alcun segno di decadimento e anzi, in alcuni casi, con l’esercizio e la pratica è addirittura migliorato, restando in una condizione di perfetta salute mentale oltre 20 anni in più rispetto ai membri della sua famiglia.  

Cosa l’ha protetto  

Le indagini genetiche hanno evidenziato che l’uomo era privo delle mutazioni genetiche protettive nei confronti dell’Alzheimer giovanile individuate in passato in altri pazienti (come la variante genetica del gene Reln o Christchurch) ma aveva nove varianti genetiche assenti nei suoi familiari con la mutazione PSEN2 e demenza.

Sei di queste varianti non erano ancora mai state associate alla malattia neurodegenerativa, ma erano legate ad alcune funzioni che possono contribuire al suo insorgere come la neuroinfiammazione e il ripiegamento delle proteine. Va ricordato infatti, che l’accumulo del peptide beta-amiloide è causato da un ripiegamento sbagliato della sua proteina precursore, che normalmente ha un ruolo fondamentale nella crescita e nella riparazione dei neuroni.  

Le ipotesi  

Secondo il team di ricercatori, una combinazione di varianti genetiche (delle quali deve ancora essere individuata la funzione), fattori ambientali (essendo meccanico di motori di grandi navi è stato esposto a calore elevato) e stile di vita, potrebbe spiegare perché l’uomo sia riuscito a contrastare la demenza ben oltre il limite temporale imposto dalla mutazione.

Inoltre, mostrava un basso livello di infiammazione neuronale rispetto alla maggior parte dei pazienti con Alzheimer, come se il suo sistema immunitario fosse in grado di reagire in modo meno aggressivo alla presenza di placche amiloidi. Questi risultati sono in contrasto con la teoria prevalente che ritiene l'amiloide il principale fattore scatenante del morbo di Alzheimer.

In questo caso, nonostante la presenza di placche amilioidi nel cervello fosse elevata, apparentemente non è stata determinante per lo sviluppo dei sintomi tipici e quindi la teoria potrebbe non essere valida per tutti. Secondo Llibre-Guerra, autore dello studio, evitare che la proteina tau si diffonda nel cervello potrebbe essere efficace per ritardare o addirittura fermare lo sviluppo della demenza.  

Gli altri due casi  

Questo è il terzo caso al mondo di “resistenza” all’Alzheimer a esordio precoce a essere stato documentato e, come entrambi i precedenti, a essere stato raccontato sulla rivista Nature Medicine. Il primo risale al 2019. Dei ricercatori statunitensi di Boston avevano segnalato il caso di una donna le cui capacità mnemoniche erano diminuite solo a 70 anni.

A proteggerla dalla malattia neurodegenerativa, una mutazione genetica definita Christchurch APOE3. Nonostante nel suo cervello ci fosse una presenza massiccia di placche amiloidi, risultava relativamente libero dalla proteina tau. La donna aveva una buona forma cognitiva (non derivante da un’elevata scolarità) e beneficiava di una protezione determinata da un fattore biologico. Le analisi genetiche hanno scoperto che presentava una mutazione molto rara, due copie della variante APOE3 entrambe con una mutazione nota come Christchurch.

Il secondo caso, invece, è stato scoperto due anni fa. Si tratta di uomo colombiano con una variante predisponente all'Alzheimer, una mutazione sul gene preselinina 1 (PSEN1) e, per questo, avrebbe dovuto sviluppare il morbo di Alzheimer entro i 40 anni. Al contrario, invece, ha continuato a lavorare fino a 60 anni, manifestando i primi sintomi di declino cognitivo intorno ai 67 anni. A tutelarlo, era stata una variante del gene Reln.