«Per l’emofilia prodotti più sicuri ed efficaci sperimentazioni di terapia genica. Progressi importanti anche per altre patologie»
Professoressa Flora Peyvandi, parliamo di una malattia rara che le sta particolarmente a cuore?
«Poiché mi occupo da sempre di malattie della coagulazione, non posso che far riferimento a questo gruppo di malattie rare che comprende l’emofilia, la carenza del fattore di Von Willebrand e le carenze rare dei fattori della coagulazione. Questi sono difetti congeniti ed ereditari, che si manifestano con emorragie anche spontanee. L’emofilia è un’alterazione della coagulazione dovuta alla mancanza di due proteine del sangue, il fattore ottavo (VIII, emofilia A) o nono (IX, emofilia B) della coagulazione. In emofilia si possono avere emorragie spontanee, specialmente a livello delle articolazioni. Nel 40 per cento dei casi, la diagnosi di emofilia è totalmente inaspettata, poiché la mutazione genetica che causa la malattia è di nuova insorgenza, quindi non si è mai avuta prima in famiglia. Mentre nel rimanente 60% dei casi, la mutazione viene ereditata dalla mamma che ne è portatrice sana, cioè non manifesta i sintomi della malattia».
Come si arriva a sospettare l’emofilia?
«I primi sintomi possono essere ematomi e sanguinamenti delle articolazioni fin dai primi mesi di vita, da quando, per esempio, il bambino inizia a gattonare oppure in seguito a piccoli traumi. Si effettuano allora esami ematici che valutano la coagulazione del sangue che possono confermare o meno la diagnosi sospettata».
Come evolve il quadro clinico?
«Quando il paziente manifesta un qualsiasi tipo di sanguinamento, è necessario fermarlo urgentemente con l’infusione del fattore della coagulazione mancante. Nelle forme gravi, per evitare sanguinamenti futuri si imposta una profilassi, cioè si somministra il farmaco periodicamente in modo preventivo. Allo stato attuale utilizziamo concentrati di fattore che vengono infusi in modo endovenoso due/tre volte alla settimana come profilassi. Nel corso degli anni abbiamo assistito ad un netto miglioramento dei prodotti di trattamento che sono stati resi più efficaci e più sicuri. Inoltre negli ultimi anni è stato sviluppato un tipo di terapia non sostitutiva per l’emofilia A, ovvero un prodotto che pur non essendo un fattore della coagulazione, attiva la coagulazione con meccanismi diversi e che viene somministrata in modo sottocutaneo, consentendo una grande protezione dai sanguinamenti con un facile metodo di somministrazione e con minore frequenza».
Le infusioni sono ancora fondamentali?
«Lo sono nella fase acuta del sanguinamento. Il prodotto non sostitutivo di cui abbiamo parlato viene utilizzato per la profilassi in caso di emofilia A, ma in caso di sanguinamento è ancora necessario l’utilizzo di prodotti che sostituiscano il fattore mancante. Per quanto riguarda invece l’emofilia B si hanno al momento prodotti sostitutivi che però sono stati modificati per consentire un allungamento della loro emivita, ovvero il farmaco dura di più nel circolo del paziente e quindi è possibile ridurre il numero di infusioni settimanali a cui sottoporlo, da 2 volte alla settimana a 1 ogni 10 giorni/2 settimane. Inoltre sono in arrivo anche farmaci da somministrare sottocute che faciliteranno notevolmente la terapia».
Tre anni fa lei annunciava la prima terapia genica contro l’emofilia.
«Esatto, con una singola infusione abbiamo inserito il gene del fattore ottavo in un paziente con emofilia A che ancora oggi, a distanza di 3 anni e mezzo, sta bene, senza dover ricorrere ad altri farmaci per la terapia dell’emofilia. Ma abbiamo diverse sperimentazioni in corso, anche per l’emofilia B. Nel nostro centro seguiamo pazienti di tutte le età, da neonati ad anziani. Questa diversità di pazienti e la varietà di farmaci a disposizione, impone di personalizzare la terapia, il che significa che il medico deve conoscere pro e contro di ogni prodotto, la sua efficacia e gli effetti collaterali, capire quale soluzione sia più adatta e discuterne con il paziente che deve essere parte integrante della decisione».
Un’altra malattia rara?
«Noi vediamo molti casi di porpora trombotica trombocitopenica, che si verifica più frequentemente in età adulta, tra i trenta e i quaranta anni e specialmente nelle donne. Le piastrine scendono di numero perché vengono intrappolate in microtrombi. Dieci anni fa in pronto soccorso arrivò una ragazza di vent’anni, con ecchimosi, petecchie, sanguinamenti. La perdemmo nel giro di un’ora, c’era poco da fare. Ad oggi, però, molto è stato fatto per la terapia di questi pazienti che vengono trattati con plasmaferesi e da qualche anno abbiamo farmaci salvavita, come il caplacizumab. E per questo tipo di malattia, siamo in grado di intervenire 24 ore su 24 sia dal punto di vista diagnostico sia da quello terapeutico».
La diagnosi di malattia rara in un bambino è uno choc per i genitori.
«Abbiamo nel nostro centro un team di specialisti, infermieri, genetisti e psicologi, che offrono un supporto alle coppie. Ma in Policlinico seguiamo 350 malattie rare diverse e purtroppo non sempre la malattia è così ben conosciuta da porre una diagnosi veloce e in seguito impostare una terapia efficace. Non sempre è possibile trovare rapidamente la soluzione, per cui è importante continuare ad impegnarsi nella ricerca e nella gestione dei pazienti affetti da malattie rare».
Sono tante ancora le malattie orfane di terapia?
«Purtroppo ancora molte sono le malattie rare che non hanno una terapia specifica adeguata, ma negli ultimi anni stiamo assistendo a una evoluzione continua per trovare le soluzioni ottimali, come avvenuto per l’emofilia».
«Studiare all’estero ti fa crescere – afferma la professoressa Peyvandi a proposito della fuga dei cervelli – le istituzioni devono però creare le condizioni per il rientro di questi cervelli. Io mi sono laureata e specializzata a Milano, perfezionata negli ospedali del Regno Unito, ad Harvard ho completato il dottorato. Ed eccomi di nuovo qui, perché credo fermamente nella crescita dell’Italia in questo senso”. Cosa ha insegnato il Covid? «Ci siamo abituati a lavorare in team, in condizioni di emergenza. Abbiamo fatto scendere gli indici di mortalità, diminuito il rischio di embolia polmonare. Si consideri che nella prima ondata perdevamo un terzo dei pazienti. Abbiamo imparato a lavorare in modalità multidisciplinare». Il futuro dalla ricerca? «Credo che si stiano aprendo tante strade, linee di ricerca utili a identificare nuovi trattamenti efficaci, soprattutto per la cura del cancro, della malattie su base immune, delle malattie infiammatorie e delle malattie rare».
Flora Peyvandi, medico ematologo, direttore di dipartimento, è professore ordinario di medicina interna all’Università di Milano, direttore di struttura complessa del Policlinico. Ha avviato, insieme al suo team, due tra i primi registri mondiali per lo studio delle malattie rare della coagulazione e della porpora trombotica trombocitopenica.