L’esperta: “Sperimentazioni e ricerca, tanti progressi nella neurologia”

Maria Pia Amato del Careggi di Firenze: “Abbiamo risultati molto promettenti dagli studi su staminali e anticorpi monoclonali. Con lo stile di vita si può prevenire il decadimento cognitivo”

di ILARIA ULIVELLI
20 aprile 2025
"Abbiamo risultati molto promettenti dagli studi su staminali e anticorpi monoclonali. Con lo stile di vita si può prevenire il decadimento cognitivo".

"Abbiamo risultati molto promettenti dagli studi su staminali e anticorpi monoclonali. Con lo stile di vita si può prevenire il decadimento cognitivo".

Un viaggio nel complesso universo cerebrale, accompagnati da Maria Pia Amato, professoressa ordinaria di Neurologia all’Università di Firenze, direttrice della struttura dipartimentale di Neurologia all’azienda ospedalierouniversitaria di Careggi.

Quali sono i primi segnali di decadimento cognitivo che non dovremmo ignorare?

"Disturbi di memoria, facili dimenticanze e ripetitività, difficoltà nel trovare le parole e nella pianificazione e organizzazione di abituali attività, cambiamenti del carattere e del comportamento sono i primi sintomi che si presentano nei pazienti all’inizio di un decadimento cognitivo". Cosa fare? "Al campanello di allarme bisognerebbe avviare un percorso personalizzato, perché c’è sempre la possibilità di fare qualcosa, di capire la causa e intervenire per rallentare i sintomi nelle fasi iniziali".

Alzheimer, quanta responsabilità della genetica nell’insorgenza e quanta dei fattori ambientali?

"Quella di Alzheimer è una malattia per la maggior parte dei casi sporadica, cioè causata sostanzialmente dall’interazione tra fattori di rischio genetici (il più importante è l’allele 4 dell’Apolipoproteina E) e fattori ambientali (fattori di rischio cardiovascolare come colesterolo alto, diabete, ipertensione, trauma cranico, bassa scolarità…). In una piccola percentuale di casi, intorno al 5%, la malattia di Alzheimer è invece familiare, cioè causata da mutazioni in tre geni (gene della Presenilina 1, della Presenilina 2 e della Proteina Precursore dell’Amiloide) con evidenza di diversi casi di demenza nella famiglia del paziente".

È possibile prevenire il declino cognitivo e come?

"Il declino cognitivo si può prevenire. Sono stati individuati 14 fattori di rischio modificabili, intervenendo sui quali si può ridurre il rischio di sviluppare demenza del 45%". Quali sono? "Il trattamento dei fattori di rischio cardiovascolare, la correzione della sordità, la dieta mediterranea (abbondanti alimenti di origine vegetale, olio di oliva come principale fonte di grassi, carni rosse in minime quantità), la terapia per la depressione, l’igiene del sonno, la riduzione dell’isolamento sociale, uno stile di vita mentalmente e fisicamente attivo in molti studi hanno dimostrato di poter ridurre il rischio di demenza".

La diagnosi precoce è davvero utile? Quali sono le tecniche più avanzate oggi disponibili?

"La diagnosi precoce è fondamentale: permette di iniziare subito trattamenti efficaci, gestire al meglio i sintomi e accedere a studi clinici e, in futuro, a terapie che modificano il decorso della malattia. Oggi la diagnosi si basa su una valutazione neurologica e neuropsicologica estensiva, affiancata da esami che rilevano i marcatori biologici della malattia, come il dosaggio delle proteine amiloide e tau nel liquor o tramite Pet. Presto saranno disponibili anche test sul sangue, più semplici e accessibili".

Si parla sempre più spesso di terapie sperimentali, come quelle con anticorpi: quali speranze reali?

"Oggi, per la prima volta, abbiamo un anticorpo monoclonale (lecanemab) in via di approvazione definitiva da parte di EMA (Agenzia Europea per i Medicinali), che può rallentare la progressione dell’Alzheimer nelle fasi iniziali, agendo sull’amiloide cerebrale, una proteina che si accumula formando placche tossiche. Non è adatto a tutti, ma solo a pazienti selezionati per fase di malattia e caratteristiche genetiche. A Careggi stiamo partecipando a una sperimentazione internazionale con lecanemab e un farmaco anti-tau – altra proteina implicata nel danno ai neuroni – per valutare un approccio combinato, che potrebbe rappresentare il futuro della terapia di questa malattia".

I dispositivi impiantabili, come gli stimolatori cerebrali, stanno cambiando il trattamento delle malattie neurologiche?

"I dispositivi impiantabili come la stimolazione cerebrale profonda stanno rivoluzionando il trattamento di alcune malattie neurologiche. Nel Parkinson, ad esempio, possono migliorare nettamente i sintomi motori nei pazienti che non rispondono più ai farmaci. Anche in altre patologie, come l’epilessia farmacoresistente o alcune forme di distonia, questi dispositivi offrono opzioni terapeutiche efficaci".

La neuroplasticità può davvero aiutare i pazienti a recuperare funzioni cerebrali dopo una malattia?

"La neuroplasticità è una risorsa straordinaria del nostro cervello: la sua capacità di adattarsi e riorganizzarsi dopo un danno è massima nelle fasi più precoci della vita, ma continua anche nell’età adulta. È un ambito su cui la ricerca sta investendo molto, anche per capire come potenziarne gli effetti".

A che punto siamo con la ricerca sulle cellule staminali per la rigenerazione del tessuto nervoso?

"La ricerca sulle cellule staminali per rigenerare il tessuto nervoso è molto attiva, ma ancora in fase sperimentale. I risultati più promettenti riguardano alcune malattie come la sclerosi multipla o le lesioni del midollo spinale, dove si studia la possibilità di riparare i danni o modulare la risposta infiammatoria. Al momento non esistono terapie approvate, ma diversi studi clinici sono in corso e potrebbero aprire nuove prospettive nei prossimi anni".