Il possibile collegamento genetico tra problematiche del concepimento e la sindrome di Beckwith-Wiedemann
Un collegamento genetico tra infertilità, poliabortività e una malattia rara: è l’ipotesi formulata a Milano da un gruppo di ricercatori dell’Auxologico Irccs, diventata poi un vero e proprio studio finanziato dal Pnrr (circa 800mila euro in due anni). Il progetto ha come capofila il centro regionale per la procreazione medicalmente assistita del Policlinico di Milano e coinvolge anche le università Federico II di Napoli e quella della Campania ’Luigi Vanvitelli’ di Caserta.
Dottoressa Silvia Russo, lei è una genetista dell’Auxologico: come comincia la vostra ricerca?
«Da molti anni studiamo una malattia genetica rara, la sindrome di Beckwith-Wiedemann, e raccogliendo le storie delle mamme di bambini con questa patologia spesso si osserva una lunga attesa prima di una gravidanza oppure più aborti spontanei».
Cosa comporta la malattia?
«L’iperaccrescimento di alcuni organi: può riguardare un arto rispetto al suo speculare, oppure la lingua. C’è anche un rischio oncologico accresciuto per gli organi interni. In questo progetto vogliamo capire le cause genetiche di questa sindrome».
Cosa intende?
«In alcune mamme sono stati osservati difetti nelle proteine dell’oocita. Ancora non conosciamo tutte quelle coinvolte. Sappiamo, però, che la malattia riguarda un bambino ogni 10mila. Ma la frequenza sale a uno ogni 4mila per coloro che sono nati da fecondazione assistita».
Come lo interpreta?
«La nostra ipotesi è che dalla mancata attivazione di alcune proteine materne derivi l’impossibilità della fecondazione, oppure l’interruzione spontanea della gravidanza nel primo trimestre. La Bws, ovvero la sindrome di Beckwith-Wiedemann, sarebbe un’altra possibile conseguenza: in questo caso compatibile con la vita».
Qual è il vostro campione di partenza?
«Circa 200 mamme, non tutte con figli Bws».
Quali prospettive potrebbe aprire la vostra ricerca, se coronata da successo?
«Scientificamente, sarebbe un punto di partenza: dopo aver scoperto cosa manca all’ovulo fecondato per arrivare alla vita, si potrebbe offrire una consulenza genetica più appropriata e ragionare di come sopperire».
A proposito: lei conosce le persone di cui analizza il dna? E cosa cambia per loro questa ricerca?
«In laboratorio i campioni sono identificati da codici e non dai nomi. Però sì, le famiglie vengono introdotte allo studio e ci sono rapporti continuati nel tempo. La risposta che questa ricerca può dare cambierebbe completamente la loro conoscenza di sè e l’accettazione della situazione».
Per quale motivo nelle cellule si annidano errori che vengono trasmessi alla prole? Dipende dalla presenza di sequenze instabili del Dna, che producono mutazioni più facilmente. Sette volte su dieci le malattie rare hanno origine genetica e vengono a galla, salvo eccezioni, nei primi mesi di vita.
Questo spiega l’importanza dello screening neonatale, batterie di test da eseguire alla nascita. Le tipologie di indagine possono variare da una regione all’altra. Tra le tante malattie per le quali è opportuno fare diagnosi precoce citiamo la Sma (atrofia muscolare spinale), le malattie da accumulo lisosomiale, le malattie di Fabry, Gaucher, Pompe, l’adrenoleucodistrofia, Ada-Scid e vari deficit immunitari acquisiti.