dall’inviato  Alessandro Farruggia

LAMPEDUSA, 5 ottobre 2013 - «NON È L’EUROPA che sognavo. La verità è che pure questa è una guerra e che noi siamo sempre le vittime. Quando ci siamo imbarcati a Misurata mi sono detto che era fatta. Che avrei raggiunto la Svezia, la città di Malmo, dove vivono due miei cugini. Avrei potuto lavorare, non importa dove, ripagare la mia famiglia che mi ha prestato 1.500 dollari. E invece ho rischiato di morire, ho bevuto acqua e kerosene, ho visto affogare i miei amici e ora non ho più nulla, nulla, neanche le speranze».

YEMANE ha 19 anni, sa leggere e scrivere, viene da Nak’fa, provincia di Sahil, Eritrea. Disperazione e capre. Sole e sciami di bambini senza futuro. Nel Cie che sorge in Contrada Imbriacola — oltre l’aeroporto, ben lontano dalla vista dei turisti — ha trovato la solidarietà dei fratelli eritrei. Il conforto dei mediatori culturali delle varie associazioni. Cibo. È stato visitato dagli infermieri e dal dottor Pietro Bartolo del Poliambulatorio. Non è messo male, a parte la tosse e qualche sbucciatura. Ma ha ancora davanti a sé quel che ha vissuto. E sono le ferite che stanno dentro la sua anima quelle che peseranno.

«QUANTE donne — chiede al mediatore culturale che traduce — avete salvato? Io credo che la barca affondata sia piena di donne, perché stavano sottocoperta. Io qua vedo quasi solo sopravvissuti uomini (149 su 155, in effetti). Eppure sulla barca c’erano più di cento donne, forse duecento. Sono tutte morte? Io temo di sì. E almeno dieci bambini piccoli. Se sono riuscito a stento io a salvarmi, pensate i bambini», e fa una smorfia. Già, salvarsi, è stata un’impresa. «Non ho mai visto il mare, da noi è arido e qui e mi chiedono tutti se sapevo nuotare. Che domanda inutile. Io mi sono salvato perchè avevo trovato una tanica di plastica e mi ha tenuto su».
Ognuno di loro è un miracolato. Come Osman Gebrase, che è di un villaggio non lontano dalla capitale Asmara. «Il viaggio era andato abbastanza bene — racconta— certo eravamo stretti. Chi era entrato sottocoperta non poteva più uscire da quanto stavamo pigiati. Ma fino a che non si è rotto il motore tutto è andato quasi bene. Poca acqua, un po’ di pane. Si sopravviveva. Poi la barca si è fermata». E nessuno si è occupato di loro. «Nessuno, no. Io i pescherecci non li ho visti, ma altri mi hanno detto di averli visti la sera prima, e nella notte, quando si è rotto il motore. Comunque, il mare ci ha portato in vista dell’isola e chi mandava la barca ha cercato di chiamare i soccorsi. Ma il telefonino non aveva segnale. Così qualcuno ha acceso una coperta bagnata di kerosene. Ma c’era un contenitore che perdeva kerosene ed è successo un casino. Tutti ci siamo spaventati. Io urlavo fermi fratelli, fermi, ma non puoi fermare la paura. La barca ha preso a ondeggiare e siamo finiti in acqua».

«UN PEZZO di legno mi ha aiutato — dice — mi ci son steso sopra, a faccia in su, quasi solo il viso fuori. In tanti mi sono affogati attorno. Io sapevo che era solo una questione di tempo e sarei andato giù anche io. Avevo tanta paura.Sentivo freddo. Le urla. Poi è arrivata una barca e mi hanno preso su».
Ismail Abdul è uno dei pochi somali a bordo. «Somalo — dice — del Somaliland. Volevo venire a Roma. Per arrivare qui sono passato dall’Eritrea e poi nel deserto. Un mese di viaggio nel deserto. Io vengo da un villaggio sul mare, io sapevo nuotare. Ma è dura nuotare per delle ore, non so quanto, due, tre, non so come ho fatto. Sulla barca eravamo in pochi a saper nuotare. Ma molti non hanno neppure avuto la possibilità, perché chi stava sotto si è lanciato verso l’uscita e si è incastrato tutto. Di chi stava sotto, nessuno si è salvato».
Tra tanto orrore, tra tanto dolore, anche qualche scampolo di speranza. Come la storia di un uomo che dice di chiamarsi Abdi (ma il mediatore dice che il vero nome è un altro), che a Lampedusa è arrivato tre giorni fa con un barcone, e che aveva suo figlio di 18 anni sul peschereccio affondato. Grazie a Dio suo figlio è vivo. Accade, a volte. Ma alcune centinaia di suoi fratelli non sono stati così fortunati. Il mare non perdona. La nostra indifferenza, anche di più.