UN POOL di magistrati coordinato da Andrea Beconi, 53 attivisti a processo per le violenze in Val di Susa, 707 indagati, 123 fascicoli d’inchiesta aperti dalla Procura di Torino, che si vanno a sommare alle centinaia di fascicoli ‘contro ignoti’. Sono i numeri di un lavoro imponente, che non esalta, però, chi opera sul campo per la sicurezza. «La Tav ci sta disossando» racconta un operatore di polizia tra i più esperti, veterano della Val di Susa. Spiega che «l’effetto domino sull’organizzazione degli uffici e dei commissariati, svuotati di uomini, mezzi e competenze, per svolgere questo servizio» lascia le mani libere alla criminalità organizzata. La coperta degli organici è sempre più corta, si sa.
Ma non è il solo paradosso. Nonostante i numeri forniti dalla Procura, la Val di Susa continua ad essere percepita come una zona franca, dove tutto, o quasi, è lecito.
«Io non ho paura di quello che mi tira la bomba carta, ma se quella bomba carta devo solo stare lì a prenderla, allora mi viene il dubbio di essere un inutile bersaglio. Probabilmente lo Stato ha deciso che io quando vado in Val di Susa sono il tampone di questa pseudo rivoluzione, perché noi poliziotti tamponiamo soltanto, assorbiamo tutto».
La consapevolezza della propria inutilità, dunque.
«Gli Stati Uniti hanno inviato 200 uomini specializzati per eventuali interventi in Libia, noi avevamo 10.000 poliziotti a Susa, in turni a rotazione da 2.500, per un cantiere che costruisce una galleria: è chiaro di cosa stiamo parlando? In tutta Italia siamo 120 mila. Ho visto cose lassù che non avevo mai visto prima: mezzi blindati, armi, forza ostentata. Un dispiegamento spaventoso, che ci ha messo in difficoltà più volte anche sotto il profilo logistico e organizzativo, non solo operativo. Abbiamo vissuto momenti che non esito a definire di guerra, ma anche una tremenda sensazione di vuoto e di abbandono durante quel servizio, perché, pur capendo le cose e vedendo la realtà, non si riusciva, o, peggio, non si voleva dare una risposta adeguata».
Con quale spirito un poliziotto parte per questo servizio?
«La questione principale di cui dibattiamo è l’inutilità della nostra presenza. Noi abbiamo la forza, il potere, la preparazione e l’organizzazione per contrastare non la protesta civile, che è legittima, per carità, ma quella violenta. Una buona attività investigativa e l’applicazione delle norme vigenti ci consentirebbero la risoluzione totale e definitiva dei problemi più seri. Gli episodi di violenza possiamo contrastarli quando vogliamo, in qualsiasi momento, prima che accadano, perché si conoscono i soggetti più pericolosi, sappiamo chi sono, potremmo applicare misure preventive, ci sono strumenti di indagine che permetterebbero di individuarli ancora prima che questi signori si muovano, ma tutto ciò non viene fatto. E la frustrazione cresce. Arriva il collega e ti dice: ‘Noi sappiamo chi è venuto incappucciato stasera a tirare la bomba carta’, ma gli rispondono facendo spallucce. Capisce che voglio dire?».
Per quale ragione, se lo sarà chiesto?
«Manca la volontà politica di tutelare l’iniziativa della Tav, non c’è chiarezza. Sul territorio la popolazione è ostile al progetto, si è visto, l’immobilismo della politica ha però permesso a questa identità locale forte, ma non violenta, di diventarlo, o perlomeno di dotarsi di un braccio armato. Adesso per contrastare i più violenti non basta più l’attività investigativa. Che questi ci stiano per sparare addosso noi ce lo aspettiamo da un momento all’altro. I primi turni li abbiamo fatti col giubbotto antiproiettile, avevamo anche i tiratori scelti, mezzi di blindatura superiore a quelli che impieghiamo adesso. All’inizio non sapevamo quello che avremmo trovato, ma quello che speravamo di non trovare all’inizio, in Val di Susa, man mano si sta manifestando oggi».
È convinto che il peggio debba ancora venire?
«Per fare la guerriglia non serve tanta gente e più noi siamo, più i violenti hanno bersaglio. La risposta che diamo adesso, quando subiamo certi attacchi, è rinforzare il contingente. Il più delle volte siamo posizionati in dislivello di altezza rispetto a chi ci attacca: colpirci dall’alto è facilissimo, un po’ come il tiro al bersaglio alle giostre».
Si paventa un ritorno agli anni Settanta: preoccupazione legittima, o caccia alle streghe?
«Il No Tav è l’espressione più evidente di rivolta contro lo Stato, è diventata un’icona e in questo senso c’è terreno per portare avanti vecchi ideali. Se in un’azione di guerriglia vedi qualcuno che ha la determinazione di tirare una bomba carta contro la polizia schierata, magari in futuro quel qualcuno ce l’avrà anche per gambizzare un dirigente d’azienda, un politico, un giornalista. Negli anni di piombo il terrorismo attingeva nelle fabbriche e nelle università, ora, perché no, potrebbe guardare alla Val di Susa. Può rivelarsi un buon portafoglio clienti per un imprenditore del terrorismo».