Massimo Degli Esposti
MILANO
DOPO

Fukushima si torna a dire che «il nucleare sicuro al 100% non esiste». Quindi, o si accetta il rischio, oppure «No, grazie». In realtà l’atomo senza radioattività nè scorie, senza noccioli in fusione incontrollata e «sindromi cinesi» c’è già, e non solo sulla carta: è quello «a fusione», cioè la riproduzione in terra della reazione nucleare che alimenta le stelle. Nuclei che si fondono, anzichè spaccarsi, isotopi di dueterio e trizio che si uniscono formando atomi di elio e liberando energia. Inesauribile e sicura.

QUALCHE

piccolo reattore sperimentale è già in funzione (il Jet europeo, per esempio), ma dal 2019 sarà terminato Iter, la prima «macchina» davvero in grado di produrre elettricità. Sorgerà in Francia, ma avrà, udite udite, il cuore quasi tutto italiano, benchè al progetto da 10 miliardi di euro partecipi praticamente tutto il mondo industrializzato. Merito dell’Enea, che ci lavora da vent’anni e da vent’anni «insemina conoscenze tra le imprese italiane», ci dice l’ingegner Aldo Pizzuto, responsabile del progetto fusione nei laboratori di Frascati. Così i primi lotti di commesse sono finiti per più della metà ad imprese tricolore; sono quasi 500 milioni e tutti nel cuore più avanzato del reattore che dovrà tenere in sospensione magnetica un plasma in fusione alla temperatura di 100 milioni di gradi. Alla fine, ragiona Pizzuto, l’industria italiana arriverà a coprire «più del 30% del valore della macchina vera e propria, che si aggira sui 1,8 miliardi, con una ricaduta industriale di 800 milioni, pari alla cifra investita dall’Italia nel progetto». A quel punto, soprattutto, saremo ai vertici mondiali in una delle tecnologie chiave di domani.

SÌ, PERCHÉ

se c’è un futuro energetico sostenibile per l’umanità, può essere solo nella fusione. Su questo concordano un pò tutti, compresi quelli che oggi lavorano sul nucleare tradizionale, quello «a fissione», che sta faticosamente riducendo a millesimi le probabilità di rischio catastrofe. La media mondiale all’oggi (prima di Fukushima, e con 438 reattori di prima e seconda generazione, attivi fino a 40 anni) è un incidente con vittime (Chernobyl) ogni 14.000 anni-reattore di funzionamento, cioè 0,01 vittime per Gigawatt prodotto. La terza generazione (con la variante aggiuntiva «plus» nel caso dell’Epr scelto anche dal programma italiano) è esposta a un rischio teorico da progetto di un incidente catastrofico ogni 100 milioni di anni di funzionamento. La quarta, elimina il problema del surriscaldamento, sfrutta cento volte di più il combustibile (anche l’uranio rischia di finire) e produce 100 volte meno scorie. Ma sono idee, intuizioni teoriche.

EPR

di Areva e l’americano Ap 1000 di Westinghouse, entrambi di terza generazione, sono invece opzioni già in tasca, pronte entro il 2012. «Al di là è inutile guardare — dice il professor Carlo Lombardi, una vita nell’atomo, all’Enea e al Politecnico e ora consulente della Fondazione Energylab —. Per la quarta generazione, che è ancora chiusa nei laboratori di fisica, ci vorranno vent’anni, e nemmeno si sa se sia realizzabile e a che prezzo; per la fusione è anche peggio. Inutile aspettare Godot: la sicurezza di Epr e Ap 1000 è già elevatissima. Semmai sarebbe ragionevole ridurre le potenze perché centrali più piccole sono più controllabili». Ci racconta che c’è un progetto internazionale a guida italiana per una versione dell’Ap 1000 da soli 330 Megawatt (un terzo rispetto all’originale). «Ecco, io sarei per sviluppare quello — aggiunge — , ma ci vorrebbe un grande gruppo industriale a sostenerlo, dopo il ritiro di Westinghouse».
Anche i tempi della fusione potrebbero accorciarsi, spiega Pizzuto, «se si investissero più risorse». All’oggi le tappe sono: 2019 avvio del reattore, 10 anni di sperimentazioni, poi la prima centrale vera e propria, Demo, e verso il 2050 la diffusione su scala industriale. «Potremmo scendere al 2040, però — sostiene Pizzuto — se si realizzasse il nostro progetto Fast, un micro Iter da soli 300 milioni di euro su cui fare girare parte delle sperimentazioni».