Autonomia, le Regioni ricche in trincea sulle tasse

Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto apripista della trattativa col governo per trattenere sul territorio le risorse gestendo direttamente i servizi

I governatori Bonaccini (Emilia Romagna), Zaia (Veneto) e Fontana (Lombardia)

I governatori Bonaccini (Emilia Romagna), Zaia (Veneto) e Fontana (Lombardia)

Il tema è ostico. Quasi da addetti ai lavori. Eppure, la battaglia sulla cosiddetta autonomia differenziata che si sta consumando in questi giorni ha conseguenze dirette sulle nostre tasche. Il concetto che tre Regioni (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) sono riuscite a far mettere nero su bianco nell’accordo firmato con il premier Conte a Palazzo Chigi prima di Natale, è in realtà semplice. E ricalca un altro principio all’origine della democrazia inglese, della Rivoluzione francese e, perfino dell’indipendenza degli Stati Uniti. No taxation without representation, ovvero, niente tasse se non c’è rappresentanza. I governatori, in sostanza, vorrebbero trattenere buona parte delle imposte che raccolgono nella Regione. Soldi che servirebbero a finanziare (meglio) quello che viene gestito (spesso male) dallo Stato centrale.

Alla base della richiesta c’è un dato: Veneto, Lombardia ed Emilia versano a Roma più di quanto ricevono in termini di servizi e investimenti, il cosiddetto ‘Residuo fiscale’. Con l’autonomia differenziata, le casse di queste tre amministrazioni diventerebbero più ricche. A tutto vantaggio dei cittadini, che usufruirebbero di trasporti pubblici più rapidi, di ospedali più efficienti e di asili distribuiti in ogni angolo del territorio. Per arrivare a questo risultato Veneto e Lombardia hanno promosso un referendum popolare. Tanto che perfino l’ex premier, Paolo Gentiloni, sulla base del risultato elettorale, firmò un primo accordo, mai attuato, che teneva conto di due parametri per la distribuzione delle risorse nazionali: la popolazione residente e il gettito dei tributi maturati nel territorio regionale.

Tutto bene, allora? No, perché bisogna fare i conti con un Paese che ha profonde differenze al suo interno. E dove, in realtà, solo cinque Regioni, comprese le tre che fanno da apripista alla nuova versione del federalismo, presentano un residuo fiscale positivo. Del resto, le entrate fiscali sono più alte nelle aree dove c’è maggiore ricchezza: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna producono il 40% del Pil nazionale. Così, il rischio è che, con l'autonomia differenziata, a perderci potrebbero essere soprattutto i cittadini del Sud, diventati ormai il vero bacino elettorale dei 5 Stelle. Soprattutto perché, prima di poter attuare l’articolo 116 della Costituzione, il governo avrebbe dovuto fissare i fabbisogni e i costi standard per garantire i livelli minimi di assistenza su tutto il territorio nazionale. Una norma prevista da un altro leghista doc, Roberto Calderoli, con l’articolo 42 della legge del 2009 che porta il suo nome. Un provvedimento varato dieci anni fa e anche questo mai attuato.

L'articolo 116 della Costituzione

Alla base della richiesta di maggiore autonomia c’è l’articolo 116 della Costituzione. Il terzo comma dà alle Regioni a statuto ordinario la possibilità di gestire una serie di funzioni altrimenti svolte dallo Stato. L’elenco comprende 20 competenze concorrenti: dalla scuola al commercio con l’estero, dalla tutela della salute all’alimentazione, dalla protezione civile al governo del territorio, dai porti alle grandi reti di trasporto, dalle professioni alla sicurezza sul lavoro. Da aggiungere: la tutela di ambiente, ecosistema e beni culturali, l’organizzazione della giustizia di pace, le norme generali sull’istruzione.

Calcolo del residuo fiscale

Il residuo fiscale è la differenza tra le tasse raccolte nelle singole Regioni e versate nelle casse dell’erario e quanto ricevono in termini di servizi e investimenti. Il calcolo è in qualche caso molto difficile. Anche perché è ostico calcolare quanto, effettivamente, lo Stato versa nelle tasche dei singoli cittadini. Se consideriamo i dati Istat e di Bankitalia, le tre Regioni che hanno aperto la strada per l’autonomia differenziata sono, però, fra le poche che hanno un saldo positivo. La Lombardia avrebbe uno squilibrio di 37 miliardi, il Veneto di 12 e l’Emilia Romagna di 13,5.

Fabbisogni e costi, la legge è lettera morta

Il principio, fissato anche nell’articolo 119 della Costituzione, è che tutti i cittadini italiani devono ricevere la stessa qualità dei servizi indipendentemente dalla Regione nella quale sono nati o vivono. Con la legge Calderoli, nel 2009, si cominciò a parlare di fabbisogni e costi standard per assicurare su tutto il territorio un’omogeneità di prestazioni da parte dell’amministrazione pubblica, anche con un fondo di perequazione. Ma la norma, come succede spesso in Italia, è rimasta lettera morta.

Richieste e punti dell'accordo

L’accordo siglato qualche settimana fa a Palazzo Chigi di fatto dà la possibilità a Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna di assumere la guida su alcune funzioni che attualmente fanno capo allo Stato Centrale. Per finanziare queste attività, però, le Regioni avrebbero la possibilità di trattenere sul territorio una parte delle tasse che incassano. E buona parte del cosiddetto residuo fiscale. Il Veneto, ad esempio, vorrebbe trattenere circa 6 miliardi di euro. Un po’ meno rispetto ai 6,4 miliardi che andrebbero all’Emilia Romagna applicando lo stesso principio.