Mercoledì 24 Aprile 2024

Tangentopoli 30 anni dopo, ci cambiò per sempre. Italia riscritta dai cronisti giudiziari

Il 17 febbraio 1992 l’arresto di Chiesa stravolse l’assetto del potere socialista e salì l’onda giustizialista. Accanto al pool di Milano si formò il “pool“ di un Paese pronto a condannare tutti prima della sentenza

Una foto che risale al 1992: Mario Chiesa con l'ex sindaco di Milano Carlo Tognoli

Una foto che risale al 1992: Mario Chiesa con l'ex sindaco di Milano Carlo Tognoli

Il ciclone di Mani Pulite, che cambiò l’Italia per sempre, arrivò imprevisto – come quasi tutti i fatti che invertono il corso della storia – la sera del 17 febbraio del 1992, trent’anni fa. Era un lunedì. Un giorno moscio, moscissimo per le redazioni della cronaca milanese, fino alle nove di sera, quando cominciò a circolare la notizia: "Hanno arrestato Mario Chiesa". Chiesa arrestato? Ma va’ là. In molti pensammo a uno scherzo. Mario Chiesa era il presidente del Pio Istituto Albergo Trivulzio, noto ai milanesi come “la Baggina”, la casa per anziani più famosa della città e forse d’Italia.

La Baggina era il ricettacolo, da sempre, di donazioni miliardarie (si misurava tutto in lire, allora), e quindi un patrimonio immobiliare immenso, e quindi possibilità di dispensare affitti agli amici degli amici, e poi appalti, assunzioni, e così via. Mario Chiesa era una delle persone più potenti di Milano. Socialista. Perché il potere, in quegli anni, era del Psi di Bettino Craxi. I socialisti avevano più o meno il 10 per cento dei voti, ma con quelli governavano quasi ovunque: qua con i democristiani, là con i comunisti. A Milano il sistema era il Psi, dalla fine della guerra, quasi ininterrottamente.

Arrestato Chiesa? Impossibile. Da tempo si mormorava sugli affari dei socialisti, su un giro di tangenti, clientele, corruzione diffusa. La Procura aveva provato, qualche volta, a vedere che cosa c’era di vero, in quelle voci: ma senza mai trovare nulla. Quel 17 febbraio di trent’anni fa, però, il pm che indagava sulla corruzione era Antonio Di Pietro, un ex poliziotto magari meno forbito di suoi tanti colleghi, ma investigatore formidabile come nessun altro. Sì, Chiesa era un intoccabile: ma Di Pietro lo incastrò mandando nel suo ufficio un piccolo imprenditore di Monza, Luca Magni, imbottito di microspie e di banconote segnate: sette milioni di lire, la prima tranche di una tangente richiesta per l’appalto delle pulizie alla Baggina. Chiesa fu ammanettato e Di Pietro, la mattina dopo, disse ai giornalisti: "L’abbiamo beccato con le mani nella marmellata".

Questa volta non c’era avvocato né cavillo che potesse tenere. Eppure in pochi capirono che stava per venire giù tutto. Per due mesi Mario Chiesa rimase l’unico indagato nell’inchiesta chiamata Mani Pulite. Fu soprattutto la politica a non capire. Ma quando mai un ex poliziotto è più forte della politica? E invece. Invece la storia procede anche per strappi improvvisi. Anche l’Impero austroungarico doveva essere eterno. Anche il Terzo Reich doveva durare mille anni. Anche l’Unione Sovietica doveva essere il sole dell’avvenire. Figuriamoci la Prima Repubblica con il suo pentapartito: Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli. E con la sua opposizione, il Pci. In aprile le elezioni politiche furono il segnale che un mondo stava finendo. Crollarono i vecchi partiti e spiccò il volo la Lega di Bossi. Il vento del Nord annunciava il ciclone. A Roma non capirono. "Questo Di Pietro finirà a Gallarate a fare il vigile urbano", dicevano nel Palazzo. Ma in un altro Palazzo, quello milanese della giustizia, davanti all’ufficio di Di Pietro si formavano, nel pomeriggio, file di imprenditori stanchi di pagare il pizzo alla politica.

Raccontavano di tangenti per ogni lavoro. Facevano nomi e cognomi. Di Pietro inventò un’espressione pittoresca, “dazione ambientale”, per definire un sistema nel quale il pagamento di una mazzetta era diventato la normalità. Milano venne ribattezzata Tangentopoli. E arrivarono gli arresti, e gli avvisi di garanzia ai sindaci socialisti della città, Tognoli e Pillitteri, e poi quelli ai parlamentari. A Di Pietro, inizialmente solo, vennero affiancati altri pm: Colombo, Davigo e naturalmente il capo dell’ufficio, Borrelli. Nacque il famoso pool dei magistrati anticorruzione. Nacque purtroppo un altro pool: quello dei cronisti giudiziari. Fu l’inizio della fase patologica di Mani Pulite.

I direttori di giornale sbagliarono a lasciare tutto in mano ai cronisti giudiziari. Sbagliarono perché non videro, o non vollero vedere, che le cronache erano diventate tutte uguali, ciascun giornale fotocopia dell’altro e sempre a sostegno delle Procure, non solo quella di Milano ma tutte le Procure, perché le inchieste si moltiplicarono in tutta Italia, spesso con pm pessimi imitatori di Di Pietro. Sbagliarono perché i cronisti giudiziari (e lo scrive uno che all’epoca faceva il cronista giudiziario e seguiva questa inchiesta) sono, sia pure in buonissima fede, troppo legati alle loro fonti, che sono i pm. I direttori sbagliarono perché non capirono che quello che stava succedendo non era solo un grande processo penale, ma un cataclisma politico, culturale, umano.

Per le strade si facevano le fiaccolate, sui muri si scriveva "Di Pietro salvaci", all’hotel Raphael di Roma dove andava Craxi si tiravano le monetine. Si rinnovava tristemente la furia iconoclasta che accompagna, cieca, ogni rivoluzione; si ripeteva, macabro, il triste rito delle tricoteuses. Fu giusto, e provvidenziale, mettere fine al sistema delle tangenti e a una corruzione della politica che era diventata scandalosa impunità. Ma non fu giusto né tantomeno provvidenziale – anzi fu esiziale – sostituire alla corruzione dei soldi quella degli animi. Si volle dividere il popolo in buoni e cattivi, si volle far passare il concetto che la politica è sempre marcia e che i partiti sono un cancro, si volle consegnare alle Procure il destino del Paese. Non si distingueva più nulla: tra gli arricchimenti personali e il finanziamento della politica.

Nacque in quel tempo l’orribile abitudine di costringere alle dimissioni chiunque riceva un semplice avviso di garanzia. Nacque in quel tempo l’ancor più orribile abitudine di autodefinirsi “onesti”, e di dare sempre la colpa agli altri. Nacquero in quel tempo l’antipolitica, il rancore, l’odio sociale, il complottismo. I direttori di giornali sbagliarono, perché non capirono che si finiva ancora una volta nel nostro vizio forse peggiore: il conformismo.

Sono passati trent’anni. Che cosa è rimasto? La politica non si è mai più davvero ripresa: per cercare un capo dello Stato bisogna sempre andare a pescare nella Prima Repubblica. La disaffezione degli italiani alla politica è aumentata. La fiducia nella magistratura, allora plebiscitaria, si è almeno dimezzata. La giustizia, da risorsa, è diventata un problema, forse il problema. La chiudo con le parole che proprio Antonio Di Pietro disse a questo nostro giornale, forse nella sua ultima intervista, il 30 marzo dell’anno scorso: "C’è stata una degenerazione del sistema inquirente. Quando facevo il pm io, se si trovava un reato si cercava il colpevole. Adesso spesso prima si cerca il colpevole, poi ci si dà da fare per trovare un reato da contestargli. Per capirci meglio: si è passati dal magistrato becchino al magistrato poliziotto. Io trovavo il morto e poi cercavo l’assassino; adesso trovano l’assassino e poi cercano un morto".