Pd, i big tagliano fuori Renzi

Martina verso la segreteria in attesa di Zingaretti e Calenda. Renzi può tornare in gioco fondando un nuovo partito, oppure ottenendo le primarie a breve Elezioni 4 marzo 2018, tutti i risultati: vai allo speciale

Matteo Renzi si dimette dopo la sconfitta elettorale (Ansa)

Matteo Renzi si dimette dopo la sconfitta elettorale (Ansa)

Roma, 10 marzo 2018 - I big del Pd hanno deciso di dare scacco matto a Renzi in tre mosse. Le impronte di quel partito dei 'caminetti' che si sta riprendendo il Pd pezzo per pezzo, sono visibili.  La prima mossa, salutata da entusiasti cori di giubilo, è stata l’ingresso nel partito, con la tessera, del ministro liberal Carlo Calenda («Il Pd non deve autoflagellarsi», ha detto ieri). Non è un mistero che «io e Paolo (Gentiloni, ndr) ci sentiamo diverse volte al giorno», dice di sé Calenda. E dietro il suo rumoroso ingresso c’è proprio lui, il premier. Inoltre, subito è arrivata la benedizione di Walter Veltroni e quella di Romano Prodi, due ‘padri fondatori’ del Pd ancora amati e ascoltati: ci sarà occasione per renderle pubbliche. Anche Enrico Letta, che sarebbe in procinto di rientrare nel Pd, tifa Calenda.

La seconda mossa è stata, sempre ieri, l’intervista con cui il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, ha lanciato la sua candidatura alle prossime primarie del Pd: «Io ci sono». 

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Profilo da ex Pci-Pds-Ds solido e roccioso, una zeppola nella voce che fa simpatia, il coraggio ritrovato, Zingaretti è sponsorizzato dall’intera sinistra post-diessina: il leader della minoranza Orlando, l’ultimo segretario dei Ds Fassino, l’ex comunista Sposetti, Gianni Cuperlo e un altro padre nobile, il presidente emerito Giorgio Napolitano. Se il mondo dei social e del Sole 24 ore, e cioè di una sinistra New Labour, è quello di Calenda, i giornali e la cara vecchia televisione (è sempre il fratello del mitico commissario Montalbano…) e cioè di una sinistra Old Labour sono quelli di Zingaretti.

Ma per tagliare fuori definitivamente Renzi dalla partita della successione serviva una terza mossa e quella si materializzerà lunedì in Direzione. Sarà lì che Maurizio Martina (che ufficializzerà le dimissioni di Renzi) verrà investito di una leadership piena con una forzatura regolamentare. 

Infatti, sarà Martina a svolgere il ruolo di ‘reggente’ di fatto del Pd, sarà lui ad andare alle consultazioni al Colle coi capigruppo e sarà lui ad essere incoronato segretario del nuovo Pd quando si riunirà, il 15 aprile, il massimo parlamentino del partito, l’Assemblea nazionale. In base allo Statuto, però, il solo ruolo di garanzia che dovrebbe restare in carica, dopo le dimissioni del segretario, sarebbe quello del presidente, Matteo Orfini. Martina dovrebbe presentarsi dimissionario come tutta la segreteria. Invece, Martina, con l’appoggio dei big (tra cui, soprattutto, Franceschini), diventerà il nuovo segretario del Pd, eletto in seno all’Assemblea. 

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Fino a quando? In teoria fino alla fine del mandato di Renzi, il 2021. E le primarie? Si terranno, certo, ma più avanti. Forse nel 2019 (ma ci sono le Europee), forse più avanti, chissà. Intanto, Calenda e Zingaretti potranno conquistare il cuore di elettori e militanti, rafforzando la corsa e i loro sponsor. Di Renzi non resterà che un pallido ricordo, se non avrà già tolto l’incomodo da solo, fondando un partito autonomo, stile En Marche! di Macron, con quei pochi fedelissimi che, soprattutto nei gruppi parlamentari, gli resteranno vicini.  Nel Pd derenzizzato li chiamano ‘gli ultimi reduci di Salò’. A meno che Renzi non riesca a ottenere primarie a breve e lanciare la candidatura del ministro Delrio, con cui ha ricucito, in un congresso che, però, sarebbe feroce.

 

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