Il popolo Pd e la prova dei gazebo. Ma le primarie non sono la salvezza

Nate come strumento per risollevare la partecipazione, nel tempo hanno perso sempre più efficacia. Come nella sinistra francese, la chiamata al voto dei simpatizzanti non ha consolidato la vita del partito

L'affluenza alle primarie Pd è andata via via calando

L'affluenza alle primarie Pd è andata via via calando

Roma, 26 febbraio 2023 - Oggi iscritti e simpatizzanti del Pd si recano a votare per scegliere il segretario del partito. Questa consultazione 'aperta', non limitata agli iscritti, è impropriamente chiamata “primaria”. Infatti, le primarie presuppongono delle "secondarie" e, dunque, il termine sarebbe da riservare a elezioni per scegliere il candidato a cariche elettive. Il Partito democratico ha tenuto primarie vere e proprie solo nel 2012, per la scelta del ‘candidato premier’ della coalizione di centrosinistra. 

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Oggi, invece, è la sesta volta che si tiene una consultazione diretta dell’ampia e indefinita base che ha la facoltà di scegliere il segretario. Questa consultazione e le primarie fanno parte entrambe di quelle innovazioni che hanno investito molti partiti europei a partire dalla fine degli anni Novanta, in nome di una democratizzazione interna del partito, nella realtà spesso per cercare di superare fasi di crisi e impasse. Primarie ed elezione diretta hanno sovente aiutato leadership nuove e innovative a scardinare vecchi meccanismi e resistenze di organizzazioni affaticate. Nel Partito democratico sono state concepite per dare una nuova spinta alla riorganizzazione della sinistra in una formazione che nasceva con la vocazione di farsi forza di governo e, quindi, aperta al Paese, anche sul piano organizzativo. 

Tuttavia, dopo circa un ventennio di queste sperimentazioni (e sedici anni di vita del Pd) è lecito domandarsi quanto quelle innovazioni abbiano fornito strumenti per rispondere a quella crisi dei partiti nel cui contesto erano state concepite. Se guardiamo a un paese come la Francia, per diversi aspetti simile a noi, ad esempio, e in particolare ai due partiti che furono i pilastri della V Repubblica, socialisti e gollisti, vediamo come le consultazioni dirette abbiano favorito momenti di mobilitazione collettiva, ma, al tempo stesso, anche prodotto dinamiche destrutturanti (anche in virtù dell’accelerazione dei fenomeni di personalizzazione), che non sono probabilmente estranee alla crisi di quei partiti, al momento destinati alla quasi irrilevanza. 

Il Pd dalla sua nascita ha avuto nove segretari, solo quattro eletti direttamente (Renzi due volte), mentre gli altri chiamati dopo le dimissioni anticipate di questi. Questa instabilità della leadership ha convissuto – e non è un caso – con l’assetto ‘feudale del partito’: capibastone, correnti e potentati locali. Le elezioni dirette anche qui hanno sia sfidato quell’assetto (come nel caso di Renzi) sia da esso sono state manipolate. E anche quando hanno avuto un effetto innovativo, mettendo in crisi l’oligarchia, in realtà, avendo prodotto soprattutto un potere personalizzato, non hanno avuto nessun effetto positivo sul consolidamento del partito. 

I dati che ci parlano della partecipazione, d’altro canto, ovvero iscritti e partecipanti alle elezioni del segretario, negli anni procedono parallelamente, in una veloce discesa. Come d’altro canto il consenso elettorale. Anche l’elemento mobilitante dell’elezione diretta, pur non scomparendo e mantenendo un valore in un panorama di partiti privi di qualunque democrazia interna, appare ormai indebolito. Dopo le polemiche dimissioni di Zingaretti e il faticoso biennio di Letta, si tenta di nuovo. Selezionati dagli iscritti, Elly Schlein e Stefano Bonaccini attendono il responso della più vasta platea dei simpatizzanti. Entrambi sostenuti da pezzi del partito di sempre, in particolare Elly Schlein, la candidata che si presenta di rottura, ma che ha dietro di sé i più potenti capibastone della storia del Pd. Di nuovo l’impasto tra feudalesimo ed entusiasmi temporanei. Un impasto che non lievita più.