Direzione Partito democratico, la strategia: cambiare le regole per stoppare Bonaccini

Le correnti della sinistra interna vogliono eliminare le primarie. In questo modo la parola è solo agli iscritti dove la ‘ditta’ è più forte

Enrico Letta

Enrico Letta

Roma - Oggi si terrà la Direzione del Pd. Novità: tutta in streaming (quindi pubblico), mica solo la relazione del segretario. Nel dibattito che l’ha preceduta sono intervenuti un po’ tutti: da Walter Veltroni fino a Massimo D’Alema. E, presto, sul tema, parlerà anche Romano Prodi.

Ma il solo che ha lasciato, come Pollicino, una traccia utile è stato Pier Luigi Bersani. Il quale propone di “non“ fare le primarie ed eleggere il segretario come si faceva una volta nel Pci, via congresso. Il che vorrebbe dire far vincere, facilmente, il “campione“ della sinistra – chiunque esso sia – perché la maggioranza, tra gli iscritti, la mantiene (ad oggi) l’area Zingaretti-Orlando-Provenzano.

E qui si arriva alla “ciccia“ di oggi, la Direzione, in cui la coda del Diavolo sarà tutta in temi da addetti ai lavori: un ginepraio procedurale di norme e codicilli, sul come eleggere il segretario. Esempio. Far votare, come dice Letta, il nuovo segretario anche dalle formazioni (Articolo 1, Demos, Psi) della lista Italia Democratica e Progressista già tra gli iscritti vorrebbe dire sbilanciare la platea congressuale a sinistra (al primo giro votano gli iscritti, poi primarie aperte tra i primi tre classificati). L’altro tema sono i tempi. Bonaccini li vuole brevi (gennaio-febbraio), e oggi lo dirà a muso duro. Tutti gli altri vogliono tempi più lunghi (marzo-aprile) perché non hanno ancora scelto chi dovrà affrontare, e sfidare, il governatore.

Infine, c’è il "chi". I nomi degli aspiranti al post-Letta. Il governatore dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, c’è, è palese. Ha la forza, il vento in poppa, una base sulla “linea Gotica“ (l’Appennino tosco-emiliano) dove il Pd prende, ancora, dei voti, le relazioni e le amicizie giuste. Ma, dentro il Pd, Bonaccini gode dell’appoggio di una sola corrente, Base riformista. Azzoppata da Letta nelle candidature e nel numero di eletti, messo da parte Lotti, resta solo Lorenzo Guerini. Ha una buona rete in tutt’Italia, e solida, ma Bonaccini ne accetterà l’appoggio in forma light. Vuole attaccare, ma da solo.

Poi ci sono un paio di “nanetti“, ma stentano. Sono il tosto Matteo Ricci (sindaco di Pesaro, coordinatore dei sindaci Pd) e Paola De Micheli (piacentina, ex ministro, lettiana). Un terzo, oltre ai primi due, alla seconda fase, ci sarà, ma chi? Manca, invece, il “campione“ di un’area vasta e composita che va dall’area Franceschini, passa per l’area Zingaretti e arriva fino alla sinistra (Orlando - Provenzano - Bettini - Cuperlo - ecc.) più l’area Letta. Divisi su tutto, e da sempre, hanno un “nemico“ comune: Bonaccini. Provenzano, però, ha gettato la spugna ieri. Quindi, manca un alfiere: la ricerca, a oggi, è stata infruttuosa.

Elly Schlein non viene ritenuta all’altezza del (gravoso) compito. Orlando già perse con Renzi. Zingaretti e Letta non si può. Il nome spendibile sarebbe Enzo Amendola: riformista, europeista, filiera Pci-Pds-Ds, ottime relazioni con Draghi, il Colle, il Pse, viene dal Sud. Terra dove l’emiliano Bonaccini stenta già. Il Pd non ha mai avuto un leader “meridionale“. Sarebbe una bella sfida. Ma Amendola bisogna convincerlo, specie del fatto di ritrovarsi dietro tutti quelli che – da Bersani a D’Alema, da Bettini a Emiliano – predicano l’alleanza organica coi 5s di Conte, una sorta di Fronte popolare di stalinista memoria. Sarà dura.