Chi finanzia le moschee (anche in Italia)

L'Austria, che oggi ha annunciato un giro di vite, era stato il primo stato europeo ad approvare una normativa severa contro il finanziamento estero, vietandolo

Sebastian Kurz, cancelliere austriaco (Ansa)

Sebastian Kurz, cancelliere austriaco (Ansa)

Roma, 8 giugno 2018 - Le premesse c’erano tutte, e non erano un mistero. L’Austria era stato il primo stato europeo ad approvare una normativa severa contro il finanziamento estero delle moschee. Vietandoli. A introdurla era stato proprio l’attuale cancelliere Sebastian Kurz, quando nel 2016 ricopriva ancora la carica di ministro degli Esteri e dell’Integrazione. "Non abbiamo niente contro l’Islam, vogliamo solo risurre l’influenza politica e il controllo dall’esterno". Quella di Vienna fu l’unica presa di posizione ufficiale, concreta, di una riflessione che però ha riguardato e riguarda molti stati europei di fronte all’offensiva neppure tanto in sordina di cui sono fatti oggetto da potenti e ricche monarchie arabe e musulmane che a suon di petroldollari stanno finanziando da anni la costruzione di moschee in molti paesi europei. Niente di male, verrebbe da dire, anche il Vaticano elargisce sovvenzioni in tutto il mondo per la diffusione della fede cattolica e la costruzione di chiese cristiane. Basti pensare alle missioni africane. C’è però una differenza, non da poco: molte delle monarchie che con una mano staccano assegni milionari per diffondere il culto di Allah, con l’altra sostengono più o meno ufficialmente l’Isis e il terrorismo (noti sono per esempio i rapporti tra il Qatar e i Fratelli musulmani e altri gruppi islamisti in Medio Oriente). Oltre a essere loro stessi paesi in cui la democrazia e i diritti individuali non si sa neppure che cosa siano. Il parallelo con il Papa regge quindi pochissimo. 

Una discussione sull’opportunità di vietare i finanziamenti dall’estero o per lo meno sull’opportunità di renderli più trasparenti e di subordinarli a determinate condizioni di "sicurezza" e tracciabilità è stata avviata in diversi stati, tra cui l’Italia e la Francia. Se ne parlato anche in Svizzera, dove un leghista, Lorenzo Quadri, aveva presentato un emendamento in tal senso prima accettato dal parlamento e poi respinto dal Consiglio degli Stati. In Italia una analoga iniziativa era stata presentata a fine della scorsa legislatura da Daniela Santanché, ma poi la cosa era morta lì per l’oppozione del Pd. E’ probabile però che se ne torni a parlare, non solo per il clima politico (e i rapporti di forza parlamentari) cambiati, ma anche perché si tratta di un fenomeno indubbiamente allarmante. Nel nostro Paese è sempre più forte l’attività di stati stranieri, spesso legati in qualche modo a sigle che fiancheggiano il terrorismo, che a suon di milioni si fanno largo tra i fedeli musulmani, conquistando un consenso la cui origine non è trasparente. In prima fila ci sono Quatar (in realtà presente non solo sul fronte moschee, ma anche in quello economico con squadre di calcio, compagnie aeree, hotel di lusso), Turchia e Arabia Saudita.

Il Qatar opera attraverso la Qatar charity Foundation, una ong che ufficialmente si occupa di "charity", ossia beneficienza, in realtà è il braccio operativo della monarchia wahabita per estendere la propria influenza all’estero, in particolare in Europa. Milioni di petroldollari sono arrivati nel tempo in Francia, Italia, Svizzera, Germania, Romania, Belgio, Albania, Bosnia. In Italia i soldi finiscono principalmente all’Ucoii che ha ammesso l’esistenza di questo piano di aiuti, parlando di sovvenzioni di 25 milioni di euro per tre anni destinati alla costruzione di 43 centri islamici in tutto il Paese. Le più importanti moschee italiane, da quella di Ravenna e quelle di Roma o Colle Valdelsa, sono state tirate su anche grazie alla "generosità" degli emiri wahabiti. Se è generosità disinteressata non è dato sapere.