Migranti, la soluzione di Minniti: "Piano di investimenti per il Nordafrica, Roma insista"

L’ex ministro dell’Interno: i ricollocamenti dei migranti dividono. "Si punti su crescita e stabilizzazione politica dei Paesi di provenienza"

Roma, 12 novembre 2022 - "La presidente Meloni ha parlato di un Piano Mattei per l’Africa. Non so a che cosa pensasse. Ma, io che sono cultore dell’interesse nazionale, so che il nostro interesse nazionale fondamentale oggi è quello di chiedere e ottenere dall’Europa un piano di investimenti per la stabilizzazione del Nordafrica. Non la rivendicazione, in sé giusta, della mancata solidarietà francese o di altri Paesi nei nostri confronti". Marco Minniti ha lasciato la politica da qualche anno e oggi guida la Fondazione MedOr, ma quando si parla di immigrazione rimane un punto di riferimento autorevole per tutti, a sinistra, da dove viene, come a destra.

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Alcuni migranti sbarcati dalla Ocean Viking a Tolone e portati a Hyeres (Ansa)
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Quali i punti di riferimento da avere nella prima crisi europea del governo Meloni?

"Con tutto il rispetto per i sondaggisti, non c’è sondaggio che tenga. L’immigrazione è un tema molto importante per i governi perché lo è per le opinioni pubbliche. E se qualcuno avesse ancora dubbi, basta guardare quello che sta avvenendo in queste ore tra Italia e Francia. Ma c’è una seconda premessa".

Quale?

"L’immigrazione non può essere affrontata con politiche di carattere emergenziale. Perché non è un’emergenza. Anzi, dovremo abituarci a situazioni ancora più drammatiche perché, oltre alla fuga dalle guerre e dalle carestie o per migliorare economicamente, in futuro è prevedibile una fuga di milioni di persone per i cambiamenti climatici. Le grandi democrazie, dunque, possono solo governarla, non cancellarla. In una condizione più complicata di prima".

Perché?

"Perché l’Europa rischia di essere stretta in una tenaglia umanitaria. Dall’Ucraina si sono spostati dieci milioni di persone, di cui si stanno facendo straordinariamente carico Polonia e Ungheria, paradossalmente i Paesi più chiusi alle ricollocazioni. Ora, se accanto a questa pressione, c’è quella che sale dal Mediterraneo centrale, l’Europa può essere accerchiata. In un quadro in cui la Russia ha provocato la prima ondata, ma la stessa Russia, pur non essendo dietro i flussi dall’Africa, non intende abbandonare il quadrante del Mediterraneo. Dunque, per ragioni strutturali e per il contesto attuale, nessuno in Europa può farcela da solo".

Che fare, allora?

"L’Italia deve avere un doppio atteggiamento. Il primo, giusto, è quello di dire “non ci lasciate soli, siamo in prima linea e paghiamo il prezzo più alto”. Ma dobbiamo essere consapevoli degli ostacoli che abbiamo davanti nel volere ottenere solidarietà dagli altri Paesi".

Quali sono gli ostacoli?

"Il Patto di Dublino, innanzitutto, per il quale dovremmo ringraziare coloro che lo hanno firmato, perché consegna ai Paesi di primo approdo non un cerino acceso, ma un pagliaio in fiamme. Tentare di cambiarlo è complicatissimo. Dobbiamo ricordare, poi, che fino all’estate del 2018, la ricollocazione dei migranti arrivati in Italia era obbligatoria per l’Europa. Nell’estate del 2018, d’accordo il nostro governo, la regola è diventata volontaria. Ma se era molto difficile che il sistema unzionasse quando era obbligatorio, possiamo immaginare come possa esserlo oggi che è volontario. Il che non toglie che vada valorizzato il recente accordo che rilancia un nucleo di cooperazione volontaria".

Dunque, la via delle ricollocazioni è impervia?

"Facciamo bene a porre il tema della solidarietà, ma la redistribuzione divide. Se il cuore delle politiche migratorie è la divisione degli immigrati, la situazione non regge, perché è evidente che ognuno ha a che fare con la propria opinione pubblica".

Quale è, dunque, la strada più praticabile?

"Il punto è che noi abbiamo bisogno come il pane, come Italia e come Europa, di affrontare questo fenomeno al di là del tornaconto politico immediato. E allora, come Italia, dobbiamo chiedere all’Europa di affrontare tutti insieme il problema del rapporto con l’Africa. È da lì che passa il futuro dell’Europa dei prossimi venti anni: per evidenti ragioni demografiche, per gli approvvigionamenti energetici, per la lotta al terrorismo. Tanto più se in quelle aree sono presenti russi e cinesi".

Che cosa dovremmo chiedere all’Europa di fare insieme?

"Noi potremmo essere, per mille motivi, l’apripista di una impostazione centrata su un piano di investimenti per il Nordafrica che abbia una doppia finalità, la stabilizzazione sociale e politica di quei Paesi, e la loro crescita. Sono stati investiti 6 miliardi di euro per la rotta balcanica in Turchia. Dobbiamo chiedere che vi siano investimenti per almeno 3 miliardi di euro per il Nordafrica, senza accettare per un secondo che l’argomento sia rinviato alla prossima discussione. Quei soldi non sono “un aiutiamoli a casa loro”. Ma “un aiutiamoci a casa nostra”".

Restano, però, i flussi illegali di immigrazione.

"Possiamo garantire 30 mila ingressi legali l’anno alla Tunisia, per fare un solo esempio, gestiti dalla nostra rete consolare e non dagli scafisti e dai trafficanti. Possiamo andare là anche a insegnare loro l’italiano, a formarli secondo le esigenze del nostro mercato del lavoro. Con un solo obbligo: ti do gli ingressi legali e tu stabilisci un patto con me di rimpatrio immediato per quelli che arrivano illegalmente, perché i rimpatri si possono fare solo se il Paese di provenienza collabora".

Un’ultima nota: come far «pace» con la Francia?

"Ora serve un’azione di de-escalation verbale. Nel progetto per l’Africa non possiamo fare a meno della Francia. È questo il senso, è questo il cuore del Trattato del Quirinale firmato un anno fa. C’è lo spazio per un nostro grande protagonismo. Ma non possiamo esercitarlo senza la capacità di portaci dietro l’Europa. Si chiama tecnicamente egemonia".