Roma, 6 luglio 2025 – C’è più di una ragione e più di una traccia per ritenere che Giorgia Meloni sia “tornata” a pieno titolo, dopo qualche fase di attesa e di attrito, nel direttorio di una politica europea a tre punte e, nel caso, della politica di difesa, anche a quattro punte. Ostinarsi, dunque, a inseguire e sbandierare slogan e polemiche da campagna elettorale permanente, come fanno ormai da mesi i leader dell’opposizione, può essere un esercizio utile per i social o per dimostrare la propria esistenza quotidiana, ma non è certo un buon servizio reso né al Paese né al suo interesse nazionale né, in definitiva, agli stessi obiettivi di una classe dirigente che si candidi al ruolo di alternativa.

Il ritorno completo della premier nella posizione e nel ruolo tenuti e rivendicati fin dall’inizio del suo governo (atlantismo a 360 gradi e europeismo pragmatico d’intesa con il Ppe di Ursula von Der Leyen) è del tutto emergente nelle ultime mosse, ultime solo in ordine di tempo e di evidenza, perché, in realtà, sono tangibili anche nei passi degli ultimi due mesi: basti pensare al vertice di cinque ore a Palazzo Chigi con Emmanuel Macron, dopo il gelo della primavera tra i due.
Oggi, però, si è ben oltre quella ricucitura faticosa. È di ieri l’indiscrezione, pubblicata da La Repubblica con dovizia di particolari, di un Patto a tre che vede protagonisti il presidente francese, il cancelliere tedesco Friedrich Merz e Meloni, per la definizione e la proposizione pubblica di una lettera-appello comune sulla competitività dell’Europa. L’operazione va avanti da settimane e dovrebbe vedere la luce in questo mese. Si tratterà di un avviso solenne che i tre leader dell’Ue lanceranno, sulla scorta del Report messo a punto da Mario Draghi, per dare la sveglia sui rischi mortali che corre il Vecchio Continente rispetto alle altre grandi economie del Pianeta, a cominciare dalla Cina, se non corre immediatamente ai ripari. Innanzitutto su tre fronti: innovazione, competitività, costo del lavoro.
Come? Con un cambio di paradigma che contempli investimenti pubblici e privati a ampio raggio, bilanciamento delle esigenze green con quelle produttive, riduzione dei costi energetici. Una svolta che abbia come focus in primo luogo il rilancio dell’industria dell’automotive, vitale per Germania, Francia e Italia.
Se si cambia l’orizzonte e lo si allarga alla politica di difesa e di sostegno a Kiev, in gioco entra anche il primo ministro britannico Keir Starmer. Ma, soprattutto, diventa palese anche in questo caso la ritrovata unità di intenti a quattro. Basti pensare a che cosa accadrà il prossimo 10 luglio tra Roma e Londra. In quella giornata, mentre nella Capitale si terrà, sotto la regia di Meloni, la Conferenza per la ricostruzione dell’Ucraina con i rappresentanti di 50 Paesi e la presenza di Volodymyr Zelensky e di Merz, in Inghilterra, nella sede del Comando marittimo alleato di Northwood, Macron e Starmer riuniranno i “volenterosi”. Ebbene, tra i due summit è previsto uno stretto coordinamento, con la premier italiana (ed è la prima volta), il cancelliere tedesco e il presidente ucraino che parteciperanno a distanza anche al vertice londinese.
L’ultimo asse (non certo per importanza) è sui dazi. Da Bruxelles alle altre capitali europee non si è mossa una critica ai tentativi (vedremo quanto riusciti alla fine della partita) di mediazione informale di Meloni con Donald Trump. Anche perché l’accordo sottostante è netto: se non ci sarà intesa, la reazione italiana sarà uguale e coordinata con quella di tutti gli altri Paesi dell’Ue.