Elezioni amministrative, Meloni-Salvini alla sfida delle urne. Il derby decide il futuro

Voto cruciale per il centrodestra: coalizione unita in 21 capoluoghi su 26, ma non mancano le spine. L'opa sul Carroccio

Matteo Salvini e Giorgia Meloni (foto Imagoeconomica)

Matteo Salvini e Giorgia Meloni (foto Imagoeconomica)

È l’ultima vera prova prima delle elezioni politiche. In gioco, ci sono voti sonanti,ed è chiaro che l’esito del test di domenica influenzerà gli equilibri all’interno del centrodestra più di mille sondaggi. Giorgia Meloni ha il vento in poppa, è convinta che la concretezza delle urne confermerà l’aleatorietà degli indici di gradimento. E non esclude di correre da sola se le cose dovessero mettersi male e – complice magari una federazione Lega–FI – non potesse ottenere un numero di seggi uninominali soddisfacente (nell’ultimo vertice ha chiesto il 40-50% di quelli disponibili). Non conquisterebbe il governo, ma farebbe piazza pulita degli avversari a destra. Ipotesi remota: con questa legge elettorale, l’alleanza la vogliono tutti.

I battibecchi sono all’ordine del giorno: "Fd’I cresce perché l’opposizione paga", dice Salvini. "Dissento: è premiata l’affidabilità", replica Giorgia. Pesa l’opa che lei ha lanciato al Nord: un sorpasso in Piemonte, in Lombardia o nel Veneto risulterebbe indigesto a via Bellerio. Da Como a Lodi, passando per Asti, Alessandria, Monza e Verona tante sono le sfide nella sfida. "Fd’I in alcuni comuni ha diviso la coalizione: a Parma impedisce la vittoria al primo turno", attacca Matteo. E lei: "È una visione distorta, strabica. Ci sono luoghi in cui noi abbiamo fatto una scelta diversa, altri in cui l’ha fatta FI e altri la Lega". In 21 dei 26 capoluoghi che rinnovano i sindaci, il centrodestra si presenta unito. A Catanzaro, Parma e Viterbo Fd’I corre in solitaria, a Messina è la Lega che si stacca; a Verona è FI che lo fa. E tuttavia non è un caso che, tra una frecciata e l’altra, Salvini confermi la disponibilità a riconoscere la leadership della ’sorellina’ ove fosse confermata dalle politiche. "Chi prende un voto in più indicherà il premier". Che poi alle parole seguano i fatti è un altro paio di maniche, ma si scoprirà dopo il voto.

Per Salvini, però, il momento della verità rischia di arrivare prima. C’è una percentuale precisa: 15%: sopra, malgrado errori e qualche figuraccia, la leadership non gliela contesterà nessuno, anche se da giorni si parla di un commissariamento dei colonnelli per la composizione delle liste per le politiche. Sotto quell’asticella, tutto diventerebbe molto più difficile: anche in questo caso l’ex ministro degli interni mette le mani avanti per difendersi dai governisti sempre più irritati dalle sue frecciate anti-esecutivo. "Resteremo con Draghi fino alla fine".

E poi c’è Forza Italia. Che il partito un tempo oceanico del Cavaliere sia in fase di recessione è evidente, resta però fondamentale per la vittoria del centrodestra. Il vero problema è all’interno; ufficialmente nessun dubbio: schierati con la destra.

Ma se è lecito dubitare della disponibilità di Salvini ad accettare l’impero di Giorgia, lo stesso discorso vale per FI. Tanto più che Renzi con la sua manovra che punta sulla galassia centrista per mantenere Draghi a Chigi potrebbe essere una sirena attraente per una parte degli azzurri. I risultati di domenica avranno il loro peso. Una sconfitta secca sarebbe il segnale di un ’rompete le righe’ più volte annunciato, ma che il signore d’Arcore ha finora evitato. Un risultato soddisfacente avrebbe l’effetto contrario. Poi ci sono i duelli all’ultimo sangue, quelli in cui di mezzo c’è il potere reale, la poltrona di governatore della Regione. Se ne parlerà solo nel 2023 ma la guerra è già in corso. In Sicilia lo scontro è acerrimo: un ottimo score sarebbe il viatico secondo Fd’I per la candidatura di Musucemi. E c’è chi, nel giro della Meloni, mette sul piatto anche il Lazio. Netto Maurizio Gasparri (FI): "Non vogliamo un altro Michetti", avverte ricordando la sconfitta del ’campione’ di Giorgia a Roma.

In tutto questo i referendum, già indeboliti da quesiti tanto cervellotici e incomprensibili da oltrepassare i confini dell’autolesionismo, sono stati messi ulteriormente in ombra dalla guerra. Il test si baserà solo sul numero dei votanti: il 50% è off limits, ma una cosa sarebbe raggiungere un corposo 30%, tutt’altra un umiliante 10%. FI perderebbe ulteriore peso contrattuale, ma davanti a una cifra mortificante a finire nella polvere sarebbe solo chi sui referendum ha scommesso senza riuscire a sostenerli: Matteo Salvini.

La spiegazione dei 5 quesiti: le ragioni del sì e del no