L’ultimo miglio di Meloni: liti, minacce, ricatti. E i ministri nascosti fino alla fine

I nomi scritti su un’agendina per evitare veti incrociati dell’ultim’ora. Dalle mosse di Berlusconi al braccio di ferro infinito con Salvini, il percorso che ha portato la destra al governo è stato irto di ostacoli

"Scusami, Ignazio, ma tu la conosci la lista di Giorgia?". "Mi spiace, ma non ti posso aiutare". Il presidente del Senato ha dovuto rispondere così ai big alleati che, da Salvini a Berlusconi in giù, chiedevano lumi sulla lista dei ministri che la premier portava con sé, al Quirinale, segnata su un’agendina nera, fitta fitta di appunti a mano. Neppure i colonnelli di FdI sapevano quasi nulla. Alcuni hanno scoperto di essere ministri dalla tv. "Lei è fatta così, amen" sospirerà poi uno di loro.

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La premier legge la lista dei ministri, augura ‘buon lavoro’ ai giornalisti e se ne va. Niente dichiarazioni, niente ‘discorsi’ programmatici. La Meloni ha da giorni ridotto al minimo sindacale le uscite pubbliche: note e post sui social brevi. È scomparsa, anche fisicamente, dai radar. Non va nel suo ufficio al partito e né Montecitorio. È a casa, collegata, ovviamente, via telefono, con tutti, ma le telefonate che Berlusconi, Salvini, Lupi, i big e colonnelli di FdI aspettavano ("ciao, caro, volevo dirti che sarai ministro") non ci sono state. Silenzio assoluto, posta in gioco troppo alta.

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Un cambio imposto già dal 25 settembre a sera. All’hotel Parco de’ Principi, un intero partito, il suo, l’aspettava per festeggiare. Ebbri di gioia. Lei impartisce ordini tassativi: non voglio vedere né scene né sceneggiate, bottiglie di champagne, risate, frizzi e lazzi, nulla di nulla. Seguono brevi dichiarazioni dei colonnelli. Lei non parla. Muta.

Ma Salvini e Berlusconi sono fatti assai diversi. Hanno perso le elezioni, di fatto (8% a testa), ma sono come Fonzie: non sanno dire ‘scusa’, figurarsi ‘abbiamo sbagliato’. Si auto-assolvono e, soprattutto, diventano ancora più famelici. Hanno, però, la forza dei numeri: senza le loro truppe parlamentari, banalmente, il governo non c’è. La Meloni decide che bisogna combatterli (cioè convincerli) uno alla volta, non insieme. Prima affronta Salvini: fa mille bizze, questioni, punta i piedi. Vuole andare al Viminale a tutti i costi. Lei ci prova con le buone, poi con le cattive e mostra la faccia feroce. Salvini ripiega su un uomo suo (Molteni), bocciato, poi su Piantedosi (promosso). Ma non finisce lì: la Lega vuole 4/5 dicasteri, tutti importanti, e uno big al Capitano. Lei tergiversa, media, rincula, scarta, un po’ cede. Il tempo passa e appare infinito (20 giorni tra il voto e le nuove Camere), il toto-ministri impazza.

Le pretese della Lega si sommano a quelle di FI. Ognuno dei due partiti alleati vuole 5 dicasteri 5, come minimo, e alcuni li vuole pure di peso. Lei arriva a pretendere di dettar legge in casa altrui. E qui scoppia la grana, enorme, col Cav. Lui vuole la Ronzulli, al governo, e a tutti i costi. Lei dice no, poi no, poi ancora no. Berlusconi s’imbestialice e le tira due scherzi mancini: non vota La Russa (pericolo schivato con i voti altrui) e inizia a esternare all’impazzata. Su Putin e pure su di lei, insultandola. Lei replica a muso duro: "Non sono ricattabile, io". Scontro al diapason.

La stessa nascita del governo diventa a rischio. Gira, forte, la voce che Meloni sia pronta ad accettare un incarico esplorativo e a cercarsi i voti in Parlamento, uno per uno, "con chi ci sta". A costo di spaccare FI e centristi pronti a seguirla. Panico. Poi, pace, o meglio tregua armata. L’ultimo braccio di ferro è sulla Giustizia: Berlusconi insiste per la Casellati, Meloni ha deciso per Nordio. Non recede, tiene. Alle consultazioni il centrodestra va unito e la indica come premier. È fatta. Il nuovo presidente del Consiglio è lei. A Berlusconi tocca giurare fedeltà atlantica a Mattarella. Salvini minimizza, ma si sente offeso: ora vuole riaprire la partita sulle deleghe. Si vedrà. I colonnelli obbediscono. Lei ha deciso da sola e vince. Game, set, match.