La crisi dei partiti produce... partiti. Ormai ci sono più sigle che voti

Ogni giorno una nuova formazione, l’ultima è "Vinciamo Italia". Il perché di certi nomi. Il caos maggiore al centro

Luigi Brugnaro e Giovanni Toti il 27 maggio presentavano il simbolo di Coraggio Italia

Luigi Brugnaro e Giovanni Toti il 27 maggio presentavano il simbolo di Coraggio Italia

E va bene che, come dice il Machiavelli di Luigi Di Maio, Vincenzo Spadafora, Insieme per il Futuro (IpF in sigla) è un nome transeunte: sarà, cioè, solo il nome del gruppo parlamentare "e non – spiega – della futura forza politica". Però, a occhio, la più poderosa scissione parlamentare della storia repubblicana qualche problema coi nomi li ha. Come chiamarli? "Insiemisti" è ridicolo. "Futuristi" porta male. "Dimaiani", per ora, è più facile. Al netto del fatto che manca anche il simbolo, il nome è stato usato più volte, specie per liste civiche locali: sarà materia per studi, avvocati.

Peggio fanno, però, quelli di Coraggio Italia, l’ex gruppo parlamentare di Toti e Brugnaro. Mentre IpF sorge, loro perdono il diritto a fare gruppo. Qui trattasi di micro-scissione da far venire il mal di testa: nasce "Vinciamo Italia" (sette deputati) della coppia Marin-Mugnai che vuole allearsi con "Italia al centro" (7 senatori) della coppia Toti-Quagliariello, abbandonando "Coraggio Italia"... In compenso, a far nascere la componente di IpF al Senato – dove, per regolamento, non bastano 10 senatori, ma serve un simbolo presentato alle ultime elezioni – dovrebbe venire in soccorso la sigla di "Centro democratico" di Bruno Tabacci o quella di Beatrice Lorenzin, "Civica e Popolare". Qui, invece, sarà battaglia a colpi di regolamenti. Anche i corsi e ricorsi storici pesano. Per la verità almeno nella Seconda Repubblica, il palmares delle scissioni è sempre stato della sinistra radicale. Da Rifondazione se ne andarono i Comunisti unitari (1995), poi i Comunisti italiani di Cossutta (1998), infine, ci fu la rottura tra Sel di Vendola e Prc di Ferrero. Invece, Mdp-Articolo 1 di Bersani se ne andò dal Pd di Renzi nel 2017.

Tornando al centro, Ncd (Nuovo centrodestra) fece la fine che fece, alle elezioni. Prima ancora, invece, Fli (Futuro e libertà) di Gianfranco Fini nascose il suo insuccesso nelle liste dell’allora Scelta civica, guidata da Mario Monti. In Parlamento c’è Italia Viva, come gruppo a sé, ma i sondaggi la quotano bassa. Altra storia per Calenda che ha scelto di unire la sua Azione agli ex radicali di +Europa.

Il brillante massmediologo Massimiliano Panarari la vede così: "Il nome Italia è il più gettonato, da Forza Italia in poi, perché indica moderatismo, ma anche riformismo. Credo sarà molto utilizzato, da queste forze nuove. E richiama l’Italia in Europa. Futuro, invece, è troppo general-generico, ed è un nome usurato. Centro ha il problema di essere poco apprezzato, in una logica di polarizzazione, e poco spendibile sul mercato elettorale. Certo, per ora siamo a nomi e etichette tutte transitorie".

La politologa Sofia Ventura, invece, è tranchant: "Centro non ha una storia vincente, come nome, sa di paludoso. Futuro è un nome più dinamico, ma i nomi che leggo non hanno forza evocativa. Il centro, in ogni caso, è troppo affollato da micro-personalizzazioni che sono solo disgreganti mentre le scelte aggreganti si fanno solo dietro grandi leader. Ci sarebbe Draghi, ma non ha bisogno di tutti loro, sono loro che hanno un disperato bisogno di lui. Salvo solo Calenda, con la sua Azione-+Europa che andrà di certo da solo. Il resto è ceto politico che prova a sopravvivere". Panarari, invece, vede "vitalità al centro, ma solo se si assume l’agenda Draghi con la sua spinta alla modernizzazione, al riformismo responsabile. L’offerta politica centrista esiste, ma serve un leader unitario, organizzazione, strutture, soldi". Insomma, bisognerebbe mettersi “insieme“. Per “il futuro“, si capisce. Un auspicio più che un partito.