Governo, il Pd salva Conte ma ora rischia l’harakiri

Che cosa c’è dietro alla scelta pro-responsabili: l’"odio" per Renzi, la volontà di governare senza comandare, una vocazione minoritaria

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Morire per Conte? Il giorno dopo l’arrocco che potrebbe aver messo in sicurezza la permanenza di Giuseppe Conte a palazzo Chigi, sono in tanti, anche dentro il Partito democratico, a chiedersi il motivo per cui il maggior partito della coalizione (stando a tutti i sondaggi) abbia deciso di legare il proprio destino, battezzandolo novello Prodi, a un uomo che solo un anno e mezzo fa firmava gli odiati decreti sicurezza, si dichiarava più trumpiano di Trump e guidava il primo governo a trazione dichiaratamente populista delle storia repubblicana. Non proprio un profilo di sinistra.

Senza contare che, come si evince dai primi sondaggi che lo stanno ’quotando’, un futuro partito di Conte, ormai dato per sicuro da tutti, finirà per togliere voti soprattutto al Pd. La rilevazione di Antonio Noto, pubblicata dal nostro giornale ieri, assegnava a Conte un 12%, quasi quanto il Pd, ridotto al 13%.

Eppure di fronte a Renzi che vale il 2-3%, il Nazareno ha scelto chi potrebbe prosciugarlo, innestando il sospetto che, nella settimana appena trascorsa, i suicidi siano stati due e non uno solo. I motivi del possibile harakiri dem rispondono a calcoli politici di medio ("Con Conte candidato premier battiamo i sovranisti") o di brevissimo periodo ("Ognuno può continuare a coltivare i propri sogni") e a irrazionali moti dell’animo ("Morte a Renzi") così comuni nella sinistra. Ma rispondono anche alla cultura e alla logica che, dal dopo-Renzi, prima con Martina e poi con Zingaretti, ha iniziato ad albergare al Nazareno. Con la suggestione del ritorno alla Ditta, nei contenuti e nello stile, il Pd ha infatti abbandonato la vocazione maggioritaria per imboccarne una che oscilla tra il minoritario e il gregario.

I risultati si sono visti. Nei rapporti con gli alleati mai vissuti da protagonisti – all’epoca del referendum sui parlamentari il Pd è stato giubilato sulla legge elettorale proporzionale, che era la moneta di scambio pattuita con i grillini – e nella stessa gestione dei momenti di crisi.

L’ultima impasse governativa è esemplificativa. Renzi ha dettato sempre l’agenda politica, sollevando questioni che gli stessi piddini riconoscono avrebbero dovuto essere le loro. In due settimane di confronto, con il suo misero 3%, l’odiato Matteo ha ottenuto da Conte la cancellazione della fondazione sulla cybersicurezza e della task force, la riscrittura del Recovery Plan, la cessione della delega ai servizi segreti e un corposo rimpasto di governo. Quando un anno fa si formò il governo giallorosso, il Pd chiese una discontinuità sul nome di Conte e invece il premier fu Conte, un vicepremier, e non ci furono vicepremier. Di recente Zingaretti ha passato settimane a dare interviste per chiedere "una svolta", senza che quella svolta mai si vedesse.

C’è chi addebita la colpa di tutto questo a una segreteria debole, o meglio a un segretario debole, privo di carisma, iniziativa e di linea: stavolta Renzi aveva offerto al Pd la guida del governo, bastava che qualcuno nel Pd accettasse. Il punto non è però Zingaretti come persona, quanto l’idea di partito che Zinga esprime, quella di chi vuole governare ma non comandare, di chi per assicurarsi la navigazione tranquilla non prende mai il mare aperto e non alza le vele. Non va lontano ma non rischia di sfracellarsi nelle tempeste. Senza squilli e senza crolli.

Non c’è da stupirsi quindi che, al netto di quanto potrà incidere una possibile formazione di Conte, dal dopo Renzi il Pd sia un partito a rendimento elettoralmente piatto, l’unico che da fine 2019 a fine 2020 non è mutato nei sondaggi. E dire che invece di cose ne sono accadute. Un partito che non vince e non perde mai, in cui il voto di opinione, quello che tradizionalmente varia, che fece volare Renzi al 40% e poi lo ridusse al 18%, incide poco. Quel blocco fisso intorno al 20% è infatti un voto di appartenenza, di per sé più solido e duraturo.

Appartenenza a un territorio (da Toscana ed Emilia Romagna arrivano all’incirca il 25% dei voti totali), a ceti sociali tra i più garantiti (pensionati, impiegati pubblici), a valori consolidati (un su tutti: l’antifascismo) e a un sistema di rapporti che non fa mancare protezione sociale ed economica.

Un sistema all’origine di una classe dirigente che più alla politica privilegia l’amministrazione – una sottospecie di ragioneria della politica – e che assicura la mera sopravvivenza. Una volta il Pci è stato un grande partito di governo perché poteva contare su un ceto dirigente educato a pensare il nuovo, come invece adesso non accade. Dal governo si è passati, nel migliore dei casi, al sottogoverno e alla gestione dell’esistente. Naturale, quindi, che la vocazione maggioritaria si sia persa, che l’ambizione di guidare il Paese si sia ritratta. Basta un Conte per vincere, agli altri le retrovie e quello che rimane.

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