Governo, Renzi si rimette l'elmetto per fermare l'asse Pd-M5s

Il 3 maggio la direzione dem che dovrà dettare la linea, Martina insiste: referendum Casini: "Renzi si sieda al tavolo"

Maurizio Martina e sullo schermo Matteo Renzi (Lapresse)

Maurizio Martina e sullo schermo Matteo Renzi (Lapresse)

Roma, 29 aprile 2018 - La tensione e l’aspettativa in vista della prima uscita pubblica (nel senso di intervista) dal 4 marzo dell’ex leader del Pd, Matteo Renzi, che stasera parlerà da Fabio Fazio, è già scemata. Infatti, davanti ad alcune ricostruzioni che vedevano covare, nell’intimo di Renzi, la possibilità di un’apertura, seppure condizionata, a un governo coi 5 Stelle, i suoi hanno pensato di diffondere una sintesi tranchant, del pensiero del Capo che suona così: «L’accordo con i 5 Stelle sarebbe una gigantesca presa in giro degli elettori». E anche da Roma, tramite un appello-manifesto lanciato in rete e firmato da oltre cento quadri e amministratori del Pd locale, è arrivo un «No» secco all’intesa con i 5 Stelle.

Da Renzi, dunque, non ci si deve aspettare nulla che non sia la rivendicazione delle «ottime riforme» fatte in «cinque anni di governi di centrosinistra» e l’invito – si fa per dire – ai 5 Stelle, se vogliono «accomodarsi a discutere con noi», a sgombrare il campo dall’idea di smontarle, le belle riforme. Insomma, per Renzi, la pratica ‘dialogo con i 5 Stelle’ è archiviata ancora prima di essere squadernata sul tavolo e la Direzione del 3 maggio si deve trasformare in un pro-forma che servirà solo a porre dei paletti invalicabili quanto inaccettabili, per i 5 Stelle. L’unico scrupolo di Renzi è di salvaguardare l’unità del Pd, cioè non arrivare a un voto che lo vedrebbe vittorioso, ma che ne sancirebbe la spaccatura. A questo lavorano i mediatori renziani Guerini e Delrio.    Il segretario del Pd, però, per quanto reggente, si chiama Maurizio Martina, non Matteo Renzi, e il reggente non ci sta a fare la parte di quello la cui linea viene sconfessata. Prima ci tiene a puntualizzare che «Il 3 maggio non dovremo decidere se fare o non fare un governo con l’M5S, ma se iniziare un confronto, trovare dei punti d’intesa», poi dà a Renzi quello che è di Renzi («C’è bisogno del suo protagonismo e della sua forza»), ma alla fine tira fuori la proposta-bomba. Far votare gli iscritti (i famosi «territori») nel caso in cui il Pd apra al dialogo con l’M5S. Al di là del fatto che la proposta non è originale (l’ha fatta, giorni fa, il ministro Andrea Orlando, capofila dei trattativisti, insieme a Franceschini) e che sarebbe alquanto complicato metterla in pratica (durante la crisi di governo? A valle? A monte?), la proposta del reggente cade nel silenzio imbarazzato, e imbarazzante, di tutti i Dem che contano.  Le agenzie sfornano solo le solite dichiarazioni di chi si dichiara favorevole ad ‘aprire un tavolo’ con i M5S (i sindaci di Milano e Roma, Sala e Merola, Boccia, etc.) e di chi si dice ferocemente contrario (Gozi, Ricci). Morale: parce sepulto. Resta da capire Mattarella, in silenzio dal 13 aprile, quando parlò al termine del secondo giro di consultazioni.    Lega e FI chiedono di dar vita a un governo di minoranza targato centrodestra e, molto probabilmente, a guida Giorgetti. Il Pd accetterebbe un governo del Presidente purchessia, i 5Stelle tacciono sugli scenari futuri. La prosecuzione del governo Gentiloni, in carica per il disbrigo degli affari correnti, è implausibile (e Gentiloni vuole allontanare l’amaro calice): Lega e M5S farebbero fuoco e fiamme. Non resta che un governo del Presidente, ma di minoranza, che traghetti il Paese verso nuove elezioni, non prima di aver messo in sicurezza i conti (manovra economica) e aver scritto una nuova legge elettorale. Se sarà un governo ‘balneare’ o di maggior respiro si scoprirà strada facendo.