Veti e liti, l'alleanza ha ingessato l'Italia

Elezioni passate da un mese, ma tutto resta paralizzato. Solo annunci e l'attesa del voto

Di Maio, Salvini, Conte (Ansa)

Di Maio, Salvini, Conte (Ansa)

Roma, 23 giugno 2019 - Siamo al 23 giugno o al 23 maggio? Putroppo siamo a fine giugno. E a un mese dal voto europeo che doveva liberarci dallo stallo e dalla palude dell’infinita e surreale campagna elettorale giallo-verde, siamo messi peggio di prima: i parlamentari appaiono ripiegati su se stessi nel terrore di elezioni anticipate, ma ugualmente e per lo più assenti nelle aule (come nella votazione sul decreto Crescita dell’altra sera alla Camera); il governo rimane paralizzato da veti espliciti e sotterranei, querelle e scontri quotidiani tra grillini e leghisti, con i due partiti in un crescente ribollire interno. La conseguenza è un’Italia in panne, con imprese e famiglie che assistono attonite al rinnovarsi di un balletto che era durato fin troppo a lungo nei mesi scorsi. E che si ripresenta pari pari come se non fosse accaduto niente.   La conseguenza è un’Italia che si ritrova sospinta nel guado di un lungo, ma sempre più pericoloso, avvitamento, fatto di cantieri fermi e Tav al palo; rischi di stangate immediate e prossime venture a fronte di promesse di riduzioni fiscali tutte da verificare e soprattutto da finanziare; astrusi progetti di salario minimo con annessa scala mobile tardo-novecentesca con finti tagli del cuneo fiscale; dossier mai chiusi, come quello di Alitalia, e addirittura dossier chiusi ma inopinatamente riaperti, come quello dell’Ilva. Per non parlare di una condizione di isolamento politico-istituzionale in un’Europa che ci vede sempre di più come un Paese alla deriva: plastica l’immagine di Giuseppe Conte e Theresa May seduti fianco a fianco lontani da tutti. 

Dunque, a dispetto degli ultimatum post-elettorali del premier ("O ci chiariamo o mi dimetto", l’avviso tonante da Palazzo Chigi a reti unificate) e delle rassicurazioni dei leader di 5 Stelle e Lega ("Tutto risolto, pace fatta, si va avanti per altri quattro anni", la formula di rito ripetuta fino alla noia da Matteo Salvini e Luigi Di Maio), la sostanza delle decisioni politiche e degli effetti sulla congiuntura economica del Paese è rimasta uguale a prima del 26 maggio. Anzi, è peggiorata.

Basta mettere in fila i numeri per rendersi conto. La crescita, come a più riprese certificato dall’Istat, è a livello zero e siamo già a metà anno: il ministro Giovanni Tria come lo stesso presidente del Consiglio possono almanaccare come vogliono sulle magnifiche sorti e progressive del Pil, ma non c’è decreto Crescita o Sblocca-cantieri che tenga. I due provvedimenti, ammesso che servano, sono a malapena in vigore tra mille emendamenti e mille correzioni: di nuove opere pubbliche avviate non c’è traccia. La Tav, simbolo dell’Italia leghista che si muove, è scomparsa dai radar.   Non passa giorno, invece, che non sentiamo proclamare la rivoluzione fiscale della flat tax come obiettivo cardine dell’azione di governo: peccato, però, che siamo sempre ai titoli di testa. E non vorremmo che fossero anche quelli di coda: servono, per farla, almeno 15 miliardi. Ma, per ora, non sappiamo neanche come trovare a breve gli 8-9 che ci chiedono tutti gli altri Stati europei per evitare la condanna di Bruxelles. Per non parlare dei 23 miliardi da reperire con la legge di Bilancio per scongiurare la stangata dell’Iva.   Il paradosso comico, se non fosse tragico, è che mentre siamo alle prese con queste "pratiche" che toglierebbero il sonno a chiunque avesse responsabilità (e di sicuro lo tolgono al Presidente Sergio Mattarella), siamo anche costretti ad assistere alla fiera della proposte tirate fuori alla rinfusa. Ci riferiamo, per esempio, alla boutade dei mini-bot. Ma quasi peggio, perché più pericolosamente concreta, è l’iniziativa sul salario minimo: esperti e addetti ai lavori stimano un impatto sulle imprese di circa 10 miliardi di euro e possiamo solo immaginare le conseguenze sui posti di lavoro che salterebbero. Ma per Di Maio e soci si deve fare e, anzi, vale la pena rispolverare anche la scala mobile, che gli stessi lungimiranti lavoratori italiani rifiutarono nell’85. Però – e qui siamo a qualcosa di prossimo alla schizofrenia decisionale – si deve tagliare anche il cuneo fiscale sul costo del lavoro. Insomma, tutto e il contrario di tutto. A un mese dal voto, però, il tempo è scaduto e imprese e famiglie, soprattutto del Nord, fremono sempre di più perché Salvini metta fine al gioco del cerino acceso. Nell’attesa crescente di un voto anticipato che metta fine a una legislatura agonizzante.