Giovedì 25 Aprile 2024

Governo Draghi, il possibile strappo del M5s e i numeri della maggioranza

Una legislatura già in crisi. Le minacce di Conte, i numeri della maggioranza e il cicaleccio sulla legge elettorale

Giuseppe Conte, leader del M5s, e dietro una foto del premier Mario Draghi (Ansa)

Giuseppe Conte, leader del M5s, e dietro una foto del premier Mario Draghi (Ansa)

Roma, 10 luglio 2022 - In attesa che Mario Draghi risponda, "tassativamente entro fine luglio”, alle nove "inderogabili" richieste avanzate dai 5Stelle e che il loro leader, Giuseppe Conte, ha illustrato al premier nel loro incontro di mercoledì scorso, le acque della politica italiana tornano ad agitarsi. "Quando si inizia a parlare troppo di legge elettorale e di data del voto, vuol dire che la legislatura entra nella sua fase terminale” sospira un vecchio saggio, deputato Pd di più legislature. Ora, vero è che il ‘dibattito’ sulla legge elettorale e la sua riforma è già finito. Il centrodestra ha detto un rotondo ‘no’ e il Pd ha smentito di aver messo in giro progetti di riforma elettorale in tal senso (così non è, ma tant’è), ma solo di voler cambiare quella attuale. Ma di scioglimento delle Camere, data del voto e, soprattutto, di nuovi, possibili, governi che allontanino l’amaro calice della fine anticipata della legislatura si parla assai nei corridoi di Montecitorio, e non solo in quelli.

Il possibile strappo sul dl Aiuti al Senato

Si discute, per dire, se l’M5s facesse, davvero, la crisi di governo (Conte è tornato a minacciarla), magari con lo ‘strappo’ solo rinviato a settembre, anche se già sul dl Aiuti, presto al Senato, si vedrà il comportamento in Aula dei 5Stelle, dopo quello tenuto, e assai ambiguo, alla Camera. La ‘linea’ sarebbe quella di uscire dall’Aula, al momento del voto, perché – al Senato – l’astensione in aula vale come voto contrario e la fiducia si vota insieme al testo del provvedimento quindi i 5Stelle non possono fare il ‘giochino’ di dire sì alla fiducia e astenersi sul provvedimento, come hanno fatto alla Camera dei Deputati. In ogni caso, molti partiti, a partire dagli ‘alleati’ del Pd, temono un comportamento così ballerino, da parte del M5s: ritengono un “atto politico grave” non votare la fiducia, anche in forma camuffata. Senza dire del fatto che una parte consistente dei senatori è molto tentata dal dire di ‘no’ e basta.

Cosa può succedere dopo

In ogni caso, non è detto che, anche se i 5Stelle aprissero la crisi di governo, si andrebbe a votare. Molte sono le soluzioni possibili, infatti. Un semplice rimpasto per sostituire i ministri M5s (tre ministri, un viceministro, 4 sottosegretari), senza neppure dare per forza vita a un Draghi bis. O, appunto, un Draghi bis con la maggioranza che resta e gli conferma la fiducia in Parlamento. Anche perché a inizio ottobre si apre la sessione di bilancio e non si può rischiare l’esercizio provvisorio dei conti pubblici (dal 31 dicembre).

Certo, Draghi potrebbe tenere fede all’impegno dichiarato ("O c’è questo governo di unità nazionale o non c’è più il mio governo") e dimettersi in modo irrevocabile. Ma si potrebbe comunque formare un nuovo governo politico. Oppure se, ‘obbligato’ da Mattarella a tornare davanti alle Camere per verificare se ha la fiducia, questa rispuntasse come il sole all’improvviso e, dunque, il premier fosse costretto a rimanere. Anche perché, grazie alla scissione di Di Maio, pur senza i 5s, i numeri, per una nuova maggioranza, ci sono tutti. Salvini e Letta, però, dovrebbero ‘coabitare’, in modo ancor più stretto, insieme: nessuno dei due vuole.

I numeri, anche senza i 5Stelle, ci sarebbero…

Nel Pd sono molto preoccupati. Letta smentisce di volersi prestare a continuare la legislatura in altro modo (“Se cade il governo, si va a votare”), ma i suoi parlamentari, tutti “uomini di mondo”, assicurano che il Colle obbligherebbe Draghi (e, dunque, figurarsi Letta) ad andar avanti lo stesso. Per capirsi, oggi, con l’M5s al governo, Draghi gode di questi numeri: 555 deputati di maggioranza alla Camera, 272 senatori al Senato. Con il quorum della maggioranza assoluta fissato a 316 voti alla Camera e a 161 voti al Senato, anche senza i 5s (62 senatori e 105 deputati), la maggioranza – se Pd-Lega-FI-IpF-Iv-gruppi minori la confermassero godrebbe comunque di un ampio margine: 210 senatori e 450 deputati. All’opposizione, dove oggi fanno furore FdI, ma anche gli ex stellati de l’Alternativa e altri gruppi (totale attuale: 40 senatori e 60 deputati in tutto), starebbero in 102 senatori e 165 deputati, con l’apporto dei gruppi stellati, quindi troppo pochi per impensierire un governo con numeri così alti.

L’altolà di Di Maio e le 'minacce' di Conte

Ma la politica, si sa, non si fa solo con i numeri, anche se, indubbiamente, possono aiutare molto. Draghi sarebbe tentato a lasciare, data la rottura con un partner fondamentale della maggioranza, i 5stelle, il governo sarebbe ostaggio della Lega, già oggi diventato il primo gruppo parlamentare, e per il Pd ‘reggere’ un governo dovendo fare a ‘materassi’ tutti i giorni con Salvini sarebbe dura.

Di Maio, non a caso, riunisce i gruppi di IpF e lancia un durissimo appello alla responsabilità a tutta la maggioranza e, in particolare, ai 5Stelle: “Aprire una crisi di governo significa prestare il fianco alla propaganda di Putin, che otterrebbe l'obiettivo di sgretolare il nostro governo”. Torna, lo spettro di “un Papeete 2.0” dice Di Maio, ma “attenzione a riproporlo, a luglio o a settembre, sarebbe una mossa cinica, egoista, irresponsabile” e lui di ‘antenne’, dentro i 5s, ne ha ancora molte.

Conte – che proprio questa minaccia ha lanciato (“ai giornalisti ha detto: “Godetevi le vacanze, in caso di crisi vi avvertiamo…”), ripropone i suoi nove punti (dentro c’è di tutto: superbonus, cashback, Reddito di cittadinanza, tetto al prezzo del gas, aiuti per famiglie e imprese, svolta verde, salario minimo: roba che vale due Finanziarie…) e chiede risposte. “Subito” è la chiosa, cioè entro luglio. Draghi sta ‘analizzando’ il documento dei 5s e, sui dossier sociali, potrebbe offrire una sponda, a partire dal salario minimo, ma su altri (la rottamazione delle caselle esattoriali) non intende cedere. Il clima è da ‘appesi a un filo’…

Che fine ha fatto la riforma del Rosatellum?

Ma che fine ha fatto la tanto strombazzata, in questi giorni, riforma della legge elettorale? C’era, ma se ne sono già, subito, perse le tracce. Già ribattezzato un Porcellum 'ripulito', cioè un proporzionale di base con le preferenze o i listini bloccati corti o capolista bloccati e poi preferenze come metodo di elezione dei parlamentari e, soprattutto, presentava un premio di maggioranza, che dal 40% dei voti porta la coalizione vincente portava a ottenere il 55% dei seggi, ma non oltre per non incorrere nella mannaia della Consulta che, più volte, ha chiesto di individuare un premio di maggioranza “non abnorme, congruo”.

Di fatto, con il Rosatellum, la coalizione che vince nei tre quarti dei collegi uninominali, e ottiene circa il 40-45% dei voti (numeri alla portata di un centrodestra realmente unito) può arrivare a ottenere anche il 55-60% dei seggi, quindi superare di molto la maggioranza assoluta, che peraltro, dalla prossima legislatura, va calcolata così: 201 seggi su 400 alla Camera e 101 seggi su 200 al Senato, data la ‘riforma’ (sic) che ha comportato il taglio del numero dei parlamentari, che passeranno dai 945 attuali ai 600 futuri, con un ‘taglio’ di ben 345 seggi. Insomma, mentre con il Rosatellum ti devi spartire, dato taglio del numero dei parlamentari, ben 221 collegi uninominali (147 alla Camera e 74 al Senato, il resto sono i 12 eletti all’Estero), con un proporzionale col premio di maggioranza è molto più facile spartirsi i seggi del ‘premietto’ che potrebbero variare da 15 a 30 al massimo.

Ma la riforma non piace a nessuno

In diversi abboccamenti, due dem di prima grandezza, sul tema, il toscano Dario Parrini, presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, e Emanuele Fiano, capogruppo nella omonima commissione di Montecitorio, l’hanno proposta ai loro corrispettivi, esperti del ramo, di Lega e FdI. Parrini a Roberto Calderoli, ideatore del famigerato Porcellum, e Fiano ai colonnelli della Meloni (Lollobrigida, ma soprattutto La Russa). Il risultato, però, è stato zero. La proposta di riforma della legge elettorale è morta in un mezzo mattino. Il centrodestra non ne vuole sapere nulla. Lo dicono, praticamente in coro, Ignazio La Russa “non ci fidiamo, anche se è la nostra proposta, meglio votare al più presto e con questa legge elettorale”), Matteo Salvini in un'intervista al QN (“Le regole del gioco non si cambiano a fine partita. Inutile perdere tempo”) e Antonio Tajani (“Il Pd sa di perdere le elezioni con il maggioritario, quindi cerca di restare a galla con il proporzionale”). Pure i 5Stelle dicono no: “Non crediamo ai premi di maggioranza” spiega Giuseppe Brescia, padre del ‘Brescellum’, cioè di un proporzionale semipuro che prevede solo uno sbarramento al 5%.

L’unico busillis rimasto, dunque, è se fosse una proposta ‘ufficiale’ del Pd o meno. No, non lo era e, dal Nazareno, hanno pensato bene di smentire, seccamente, che lo fosse. "Attribuire al Pd la paternità di proposte di riforma quali quelle circolate non fotografa la realtà è fuorviante. Il Pd ha solo attivato numerose interlocuzioni con tutti i gruppi parlamentari disponibili a una riforma”.