Mercoledì 24 Aprile 2024

Ex Ilva, così le faide grilline hanno piegato l’acciaio

Dalla possibile rinascita con ArcelorMittal a un passo dal baratro: l’Ilva vittima del giustizialismo a 5 Stelle e delle incertezze del Pd

Manifestazione dei lavoratori dell'ex Ilva di Taranto

Manifestazione dei lavoratori dell'ex Ilva di Taranto

Roma, 5 novembre 2019 - Un giovane grande vecchio dell’ala migliorista-industrialista del Pci, Emanuele Macaluso, lo spiega con parole nette: "Se non c’è l’industria, non c’è sviluppo. L’Ilva è un patrimonio del Mezzogiorno". Lui, che ricorda le "grandi battaglie per strappare il Sud dalla miseria dell’agricoltura" e che con i "compagni" avrebbe difeso con le unghie e con i denti quello che una volta si chiamava il IV Centro siderurgico di Taranto, uno dei gioielli dell’Iri, non le manda a dire: "La sciagurata campagna dei grillini ha condotto a questo risultato, ma mi auguro che il Pd voglia far cambiare posizione al governo perché dia le garanzie che la società chiede per continuare l’attività".

Oggi, però, nell’esecutivo giallo-rosso non ci sono i giovani comunisti-industrialisti, ma i grillini social-ambientalisti di ritorno che sull’Ilva e, dunque, sulla testa di oltre 10mila lavoratori, stanno consumando la loro più feroce faida interna tra l’ala governista di Luigi Di Maio e quella ex governista capeggiata al Senato dall’ex ministro leccese Barbara Lezzi. Mentre il Pd di Nicola Zingaretti e Italia Viva di Matteo Renzi fanno da spettatori, forse pentiti, rispetto a un risultato che proprio con i governi di centro-sinistra, anche con lacerazioni interne, avevano cercato di evitare come la peste negli anni scorsi.

La guerra dell’acciaio di Taranto è, infatti, innanzitutto la guerra tra i dem e, nello specifico, Renzi, Paolo Gentiloni e Carlo Calenda, da una parte, e i 5 Stelle, spalleggiati dal governatore pugliese Michele Emiliano, dall’altra. Ma la guerra del polo siderurgico del quartiere Tamburi è anche quella tra la magistratura (tarantina), supportata e amplificata dal giustizialismo del Movimento, e le contraddizioni del Pd sospeso tra le spinte riformiste e garantiste e le pulsioni massimaliste.

Certo è che, cavalcando le inchieste giudiziarie che portano all’estromissione dei Riva dalla proprietà dell’Ilva, il Movimento edifica, in Puglia, ma non solo lì, la sua identità turbo-ambientalista: la parola d’ordine, fino alle elezioni del 2018, è la chiusura dello stabilimento. A tutti i costi: e la messe di voti che raccoglie in città e in regione, come in tutto il Sud, si nutre anche di questa bandiera. Insieme con le altre connesse: No Tap, No Tav, No trivelle.

Negli anni, però, tra il 2015 e il 2018, Calenda in regia per tutta l’operazione come Ministro dello Sviluppo, con Renzi e Gentiloni a Palazzo Chigi, riesce a far partire la gara per dare un futuro all’Ilva, con garanzie anche di risanamento ambientale a carico dei compratori, e a far uscire l’impresa dalla gestione commissariale.

Il governo, e dunque lo Stato Italiano, si impegna a offrire uno scudo legale a chi acquisterà l’azienda contro possibili (anzi, certe) azioni giudiziarie per reati ambientali, fino al risanamento. A vincere la corsa è il gruppo indiano ArcelorMittal, anche se non mancano i distinguo dell’ex leader del Pd, che, si racconta, avrebbe preferito la cordata Arvedi-Jindal-Marcegaglia.

In mezzo, però, ci sono le elezioni della primavera del 2018, la vittoria grillina, la nascita del governo giallo-verde. L’Ilva diventa un altro terreno di scontro con la Lega di Matteo Salvini, fino a quando tocca proprio a Luigi Di Maio, come ministro dello Sviluppo economico, mettere il sigillo all’accordo tra azienda e sindacati che sancisce, dal primo novembre dello scorso anno, l’ingresso di ArcelorMittal nella gestione degli stabilimenti siderurgici diventati ex Ilva. Peccato che in sette anni, dagli arresti e dal sequestro del 26 luglio 2012, si sono bruciati negli altiforni 23 miliardi di euro di Pil, l’1,35% della ricchezza nazionale: con un impatto da 7,3 miliardi anche sulle imprese di Veneto, Emilia Romagna, Piemonte, Liguria e Lombardia.

Tant’è. Si riparte. Ma è una falsa partenza. Le rinate spinte oltranziste dei duri e puri del Movimento, in primavera, portano alla cancellazione dell’immunità nel decreto Crescita, ma Salvini punta i piedi e ottiene l’accordo per il suo reinserimento, per quanto circoscritta, nel decreto legge Imprese varato a rottura con i grillini già conclamata. È a quel punto che la Lezzi, forte dei numeri risicati a Palazzo Madama, conduce l’assalto finale per la cancellazione, questa volta con l’avallo del Pd e dei renziani, dello scudo penale per i vertici del gruppo franco-indiano (che, nel frattempo, ha cambiato l’ad ed è guidato dall’italiana Lucia Morselli).

La miscela diventa esplosiva con le richieste della magistratura (con l’obbligo per ArcelorMittal a completare interventi d’urgenza entro il 13 dicembre, pena lo spegnimento dell’altoforno numero 2) e il peggioramento della congiuntura internazionale (con la cassa integrazione per 13 settimane per 1.276 lavoratori). La situazione è pronta a precipitare. E infatti precipita, ieri, con l’annuncio dell’addio