Elezioni regionali 2020 e referendum, leader alla prova ma c'è chi rischia di più

Il voto avrà conseguenze sugli equilibri politici. Conte sulla graticola se vince il No. Da Salvini a Zingaretti: ecco tutti gli scenari

Giuseppe Conte (Ansa)

Giuseppe Conte (Ansa)

Sono un po’ le nostre elezioni di midterm, quelle in cui negli Stati Uniti si fa il tagliando al presidente di turno. Ma come accade negli Usa dove nessun presidente si è mai dimesso anche con esiti elettorali avversi, è molto improbabile che dopo il voto di domani - sia per le regioni sia per il referendum - si registri uno scossone talmente forte da disarcionare il presidente del consiglio.

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Il Conte II beneficia dell’appoggio del Quirinale e dell’Unione europea, e a dispetto di una certa debolezza politica, vanta ancora una sua forza numerica in parlamento che lo dovrebbe mettere al riparo da possibili tempeste. Al massimo si procederà a un rimpasto. Conte gode inoltre di una condizione di favore che in politica ha sempre assicurato lunga vita a tutti: non ha un’alternativa reale, almeno per il momento. Non sono un’alternativa le elezioni, perché nessun parlamentare sarà disposto a farsi mandare a casa anzitempo, specie se passasse il SI, non è un’alternativa un fantomatico governo di larghe intese, Draghi o non Draghi, che trova più estimatori a livello imprenditoriale e mediatico che tra i segretari dei partiti che dovrebbero sostenerne il peso, certamente impopolare.

Non c’è un’alternativa perché il governo è stato abile ad aggrapparsi alla gestione dell’emergenza Coronavirus e perché ha potuto beneficiare di un’opposizione che un’alternativa vera non ha pensato a costruirla, o non ci è riuscita. Impegnata a giocare un derby interno per ridisegnare le gerarchie di potere. L’unica possibilità di uno scossone potrebbe essere dalla combinazione di un disastroso risultato alle regionali insieme a un trionfo del NO, marchio di fabbrica grillino. Ma si tratta di una combinazione remota, per l’improbabilità di concretizzarsi contemporaneamente il fantomatico 7-0 evocato da Salvini insieme alla sconfitta del SI. Tra i due, è quest’ultima ad avere più chanches di accadere. Il 7-0 resta davvero sullo sfondo.

Permane però il problema di un governo che in un modo o nell’altro resta debole, perché appoggiato su due architravi ballerini: i Cinquestelle e le loro perenni autoguerriglie, e un Pd in preda al fuoco amico di lotte intestine. I risultati di domani potrebbero non sedare le questioni interne ai due due soci di maggioranza dell’esecutivo e, anzi, aggravarne i contorni. Non è un bel viatico per un esecutivo che si appresta a mettere in cantiere la più grande manovra economica dal dopoguerra, programmata in parte con miliardi a fondo perduto, in maggioranza con prestiti che dovremo restituire. I primi abbozzi del Recovery Found conosciuti finora - dai contributi per la molitura delle olive al rifacimento della facciata della Farnesina - non lasciano sempre ben sperare.

Matteo Salvini

Le regionali sono la rivincita di quelle di gennaio, che per Salvini non andarono bene: debacle in Emilia Romagna e vittoria di una sua concorrente interna in Calabria (Santelli, Forza Italia). Il Capitano rischia quindi moltissimo, anche perché pure domani potrebbero vincere i propri antagonisti: Zaia in Veneto e i candidati della Meloni in Puglia e Marche. Salvini ha un unico modo per superare l’impasse: vincere in Toscana. Nella trattativa per la divisione delle regioni, Salvini provò a sfilarsi dalla Toscana credendola persa in partenza, ma poi la sua candidata, Susanna Ceccardi, ha risalito la china. Anche per la debolezza dell’avversario.

Nicola Zingaretti

Nicola Zingaretti potrebbe passare alla storia della sinistra come il segretario che nel corso del proprio mandato ha perso tre regioni rosse su quattro (Umbria, Marche e Toscana). Un filotto di fronte al quale ben difficilmente egli riuscirebbe a resistere un giorno di più al Nazareno. Zingaretti ha annusato il pericolo e iniziato a dire, per esempio in Toscana, che «il candidato è stato individuato a livello regionale». Ma se finisse davvero male, avrebbe ben poche scuse da accampare. Sulle sue spalle peserebbe non solo la scelta di candidati non all’altezza, ma anche una regia debole rispetto alla possibiità di stringere alleanze decisive. Se lunedì sera si dovesse dimettere si aprirebbe la strada di una reggenza (favorito Orlando) e poi il congresspo. I pretendenti sono molti e da tempo non aspettano altro: Bonaccini, Gori e lo stesso Orlando in pole.

Luigi Di Maio

Il ministro degli Esteri è stato molto intelligente a livello comunicativo, mettendo la faccia sul referendum e quasi ignorando le regionali. Guarda caso i pronostici per il referendum sono più rosei di quelli per le regionali... Peraltro Di Maio non ha mai scalpitato per l’alleanza con il Pd. Un successo del SI potrebbe così mascherare il probabile risultato negativo dei Cinquestelle, e lunedì Di Maio avrebbe una bandiera da esibire. Il problema è se vincessero i NO. E’ innegabile che il referendum ha assunto una forte valenza politica pro o contro i grillini. E un NO non potrebbe non essere interpretato come un «vaffa» verso di loro.

Giorgia Meloni

Tutto sommato Giorgia Meloni è quella che rischia di meno. Negli ultimi mesi le rilevazioni hanno sempre registrato un’ascesa netta di Fratelli d’Italia a livello nazionale, e quella difficilmente potrebbe essere messa in discussione. Certo, se vincessero i suoi due candidati, Fitto in Puglia e Acquaroli nelle Marche, le regionali potrebbero trasformarsi in una sorta di trionfo. Specie se, ma questo Giorgia Meloni non lo ammetterà mai, la candidata di Salvini non dovesse farcela in Toscana. Oltre che una sfida al governo, le elezioni di domenica sono un derby nel centrodestra per risidegnarne la leadership. Il dopo-Berlusconi è già cominciato.

Matteo Renzi

Matteo Renzi si gioca moltissimo. Le elezioni di domani sono infatti il battesimo di Italia viva, che Renzi aveva fatto nascere un anno fa ma mai presentato alle elezioni. Renzi aveva deciso da tempo di debuttare tra le mura amiche, la Toscana, ma adesso questa scelta potrebbe essere rischiosa: se dovesse andare non bene, un cattivo risultato proprio a Pontassieve e dintorni sancirebbe il fallimento del progetto. L’obiettivo minimo è il 4/5 per cento a livello nazionale, e in Toscana anche di più. Ma soprattutto è mostrare al Pd che senza di lui non si vince. Un po’ come facevano Pli e Psdi nella prima repubblica. Se il risultato lo premiasse, l’ex premier avrebbe di fatto lanciato un’Opa sul quell’area liberar-riformista così ricca di pretendenti e forse anche di voti, se fallisse, Italia viva finirebbe per essere rottamata.

Silvio Berlusconi

A causa del Covid il Cavaliere è rimasto appiedato più di quanto pensasse, e la sua presenza in campagna elettorale è stata giocoforza virtuale. Nonostante questo è chiaro che il risultato di Forza Italia è importante perché riaffermerebbe in qualche modo la presenza dell’area moderata e riformista del centrodestra, e dimostrerebbe ancora la piena legittimità di Berlusconi a sedersi al tavolo del centrodestra nel momento in cui si danno le carte. Peraltro prima di entrare al San Raffaele, Berlusconi aveva anche il tempo di sparigliare, dichiarando la sua preferenza per il NO