Elezioni 2018, tutti candidati premier (sulla carta). Solo il Pd rinuncia: non ha senso

Orlando avverte Renzi: col Rosatellum si decide tutto dopo il voto

Matteo Renzi e  Andrea Orlando (Ansa)

Matteo Renzi e Andrea Orlando (Ansa)

Roma, 3 gennaio 2018 - I candidati ci sono. Ce l’hanno tutti o quasi. Però sono finti. Non è questione di cattiva volontà, ma di Rosatellum. Lo ammette persino il partito più leaderistico del momento: il Pd. Che per statuto fa coincidere il segretario con il candidato alla guida del governo: «Con questa legge elettorale è impossibile dire che il premier sarà Tizio o Caio», spiega Orlando. È il non-disinteressato parere del leader della minoranza come insinua qualcuno? Macché: basta sentire un fedelissimo come Marcucci per capire che ai piani alti del Nazareno la pensano allo stesso modo. «Il sistema di voto non prevede candidati premier. Renzi è il capo di una lista che ha diverse punte. Gentiloni, Delrio, Minniti per fare i nomi più accreditati». D’altra parte, la ‘designazione’ nella situazione attuale è quasi un handicap: a meno di colpi di scena, dopo le elezioni per arrivare alla nomina del premier ci vorrà una mediazione tra i partiti. Ed ogni mediazione che si rispetti si chiude su una figura terza.

E pur tuttavia il ‘candidato’ è importante lo stesso: se non come futuro primo ministro o leader, come testimonial. Serve a portare voti; fatte le debite proporzioni, un po’ come George Clooney ha portato consumatori alla Nespresso. Ragion per cui i forzisti continuano a puntare sul Cavaliere che – senza interventi da Strasburgo – ha la strada sbarrata dalla legge Severino. «È il nostro leader, a prescindere da qualsiasi forma di espulsione politica che gli ha riservato il Parlamento», dichiara Sisto. Non c’è alternativa, aggiunge l’azzurro che ha collaborato alla stesura del Rosatellum: «Berlusconi non solo è votato, è pure amato dalla gente». Rincara Giuliano Urbani, che di FI fu uno dei fondatori: «È lui il federatore della coalizione». Pure il Carroccio, però, non scherza: giammai Bossi si era posto il problema di fare il premier, invece Salvini non si pone limiti. Sa che il suo nome ricompatta gli elettori sotto il simbolo di un partito che lui propone a livello nazionale e lancia la sfida al Cavaliere per Palazzo Chigi.

«Ed è giusto così – sottolinea Stefano Bruno Galli politologo nonché capogruppo uscente della lista Maroni alla Regione Lombardia – ha portato la Lega sul piano di parità con FI. Può dare le carte e dettare i temi dell’agenda». Lavorando per incrementare il peso elettorale della Lega. Cerca di ampliare la platea LeU puntando su Grasso, figuriamoci i Cinque Stelle: sondaggi alla mano, la candidatura di Di Maio serve anche a raccogliere voti. È una candidatura vera, fanno notare dalle parti di M5S. Dove sottolineano il messaggio di «chiarezza e trasparenza» della scelta di indicare una squadra di ministri prima del voto «che altre coalizioni non si possono permettere». Al pari degli altri aspiranti, Di Maio deve fare i conti con il paradosso di una designazione che rischia di essere un limite più che un vantaggio. Non basta additare la legge elettorale per spiegare la contraddizione: si chiude una parabola iniziata nel ’94, quando il sistema ha finto che ci fosse una elezione diretta costituzionalmente inesistente. Dopo decenni, gli italiani si sono abituati e oggi di un testimonial hanno bisogno. Antonella Coppari