Craxi, ascesa e caduta. Una storia italiana

Dominus della Milano da bere, la sinistra non gli perdonò mai la mutazione genetica del socialismo. Dopo Mani pulite, il declino in Tunisia

Bettino Craxi

Bettino Craxi

Roma, 19 gennaio 2020 -  Esattamente vent’anni fa moriva ad Hammamet - in esilio secondo i suoi sostenitori, in latitanza secondo i suoi detrattori - Bettino Craxi, leader politico prima regnante e adulato, poi spodestato e vilipeso. 

Nel ventennale della morte sono uscite ora molte opere a lui dedicate, e nella stragrande maggioranza sono benevole nella memoria, perché noi italiani siamo fatti così: prima esaltiamo, quindi ripudiamo, infine rimpiangiamo. "Il nostro è un Paese feroce ma dopo alla fine perdona", dice un personaggio del bellissimo film di Gianni Amelio, “Hammamet”. E davvero è così.

Milanese di nascita e di spirito profondo, Craxi riuscì a conquistare Roma all’inizio degli anni Ottanta, tenendo in mano il Paese intero fino a quando fu disarcionato dalla più grande inchiesta giudiziaria sulla politica che l‘Italia ricordi, la cosiddetta inchiesta Mani Pulite. Il potere, Bettino l’aveva preso modificando il dna del socialismo italiano, che trasformò da massimalista – o comunque da subalterno al Partito comunista – a moderno-riformista e protagonista. Per imporsi non ebbe bisogno di molti voti. Il suo Psi andava dal dieci al quindici per cento, sempre medaglia di bronzo dietro i due mattatori della Prima Repubblica, la Dc e il Pci. Ma con quel 10-15 per cento, Craxi impose la legge dell’ago della bilancia. A Roma governava con la Dc; a Milano con il Pci. Il dominus restava sempre lui: Craxi.

Uomo di intelligenza politica straordinaria, seppe capire la fine della sbornia ideologica (e della violenza) degli anni Settanta, e seppe interpretare come nessun altro gli Ottanta, anni ricchi di voglia di rinascere, di ridere, e pure di tanti eccessi. La “Milano da bere” era la Milano di Craxi. Una città che ripartiva dopo i cieli grigi e i cortei seguiti alla strage di piazza Fontana; una città che, come negli anni Sessanta, diventò centro di idee, di cultura, di innovazione. Molti imprenditori e artisti gli furono riconoscenti e lo seguirono con devozione. Ma la sinistra ortodossa non gli perdonò mai la mutazione genetica del socialismo italiano. Craxi fu allora considerato un traditore, un revisionista. Cominciarono a ironizzare sulla simiglianza fra i nomi Bettino e Benito, a disegnarlo vestito da Duce: fino a chiamarlo, con disprezzo, "il Cinghialone". Craxi era il Potere, e il Potere è da sempre adulato e odiato.

Lui era un capo, e il capo è spesso antipatico e arrogante. Così lo definiscono anche nel film di Amelio, che pure ne traccia alla fine un ritratto affettuoso, perché il Craxi del film è il Craxi sconfitto, e gli sconfitti ci sono sempre più cari dei vincenti. In Italia – diceva Enzo Ferrari – ti perdonano tutto tranne una cosa: il successo.

Ma l’accusa più pesante che gli venne mossa – e che lo fece, alla fine, cadere – fu quella di essere un ladro. Il Psi divenne "il partito delle tangenti". Uno dei suoi consoli, Mario Chiesa, venne pescato il 17 febbraio 1992 "con le mani nella marmellata" (così disse il giorno dopo il pm Antonio Di Pietro) e da lì cominciò la rovina del Psi e dell’intera Prima Repubblica. Il resto della storia è noto: da una parte la difesa di Craxi in Parlamento ("la democrazia, piaccia a no, ha dei costi"), dall’altra l’accusa di aver preso soldi, oltre che per la politica, anche per sé.

Dieci anni fa, nella prima ricorrenza tonda della morte, scrissi che Craxi ebbe il grave torto che all’inizio del film di Amelio gli contesta anche un vecchio militante socialista: quello di essersi fatto circondare di profittatori. La corruzione c’era davvero, a Milano era addirittura impunemente esibita: questo scrissi. Il giorno dopo incontrai in Parlamento Stefania Craxi, la figlia, che mi contestò quasi in lacrime: "Tu sai dove abitavamo – mi disse –, tu sai che mia mamma faceva la spesa al mercato, tu sai che vita facevamo. Tu sai che mio padre non era un ladro". 

Stefania diceva la verità. Cercai di spiegarle che i ladri, per me, furono molti suoi sottopanza, quelli che lo portarono alla rovina. Ma non ho mai creduto all’esistenza del "tesoro di Craxi", e credo che la storia mi abbia dato ragione. I figli vivono di politica, ma non di rendita: non mi pare abbiano conti esteri cui attingere. E anche la villa di Hammamet, per quanto sembri, "non è poi questo granché", come dice nel film un politico che va a visitare l’esule. Una bella casa, ma una casa che negli anni Ottanta, in Tunisia, potevano permettersi tanti italiani.

Craxi, quel che fece – nel bene e nel male – lo fece per la passione per la politica, credo anche per l’Italia, certamente per la sua gloria, ma non per arricchirsi. Le indagini che misero fine alla sua storia erano fondate – le tangenti c’erano –, ma non credo che in definitiva abbiano fatto chiarezza, né tantomeno giustizia. Di certo, altri che vivevano nello stesso sistema furono risparmiati.

Ma sono cose che si possono dire oggi. All’epoca, la furia delle piazze portò molti italiani – troppi – a pensare che, se le cose vanno male, è sempre e solo colpa degli altri, di una casta cattiva, di una politica che è solo far carriera. Si aprirono allora ferite ancor oggi sanguinanti. Ma è giunto almeno il momento di consegnare Craxi e il suo tempo al giudizio distaccato della storia, sottraendolo a quello frettoloso – e a volte rancoroso – della cronaca.