Conte affonda il governo: così M5s ha aperto la crisi

L’ex premier strappa dopo una giornata di consultazioni: "Non votiamo la fiducia in Senato". Lega e Pd concordi: "Senza i Cinque Stelle la maggioranza è finita"

Giuseppe Conte dei 5 stelle

Giuseppe Conte dei 5 stelle

Cronaca di una ’crisi’ annunciata. La telefonata tra Conte e Draghi non è bastata. Dopo una giornata di silenzio surreale, segnata da indecisioni e continui ripensamenti, Conte sceglie il pugno di ferro: i senatori oggi non voteranno la fiducia al Decreto Aiuti. "Siamo coerenti con quanto sin qui fatto", dice alle 22. Né la promessa di un nuovo patto sociale e di interventi contro i bassi salari, né quella di un rilancio sul reddito di cittadinanza hanno piegato le resistenze dei ’duri e puri’ M5s: "Gli aiuti fin qui stanziati sono insufficienti – avverte l’ex premier – Siamo disponibili a dialogare, ma non siamo disponibili a concedere cambiali in bianco".

Crisi di governo: perché i 5 Stelle non votano la fiducia

Il sipario per Conte si alza alle 9, con un consiglio nazionale tumultuoso: i senatori sono in assetto da guerra. I più duri, capitanati da Alberto Airola, minacciano addirittura di votare contro la fiducia. Frenano Alessandra Todde e Davide Crippa: diventa sempre più chiaro che la rottura della maggioranza e una nuova spaccatura di M5s non sono scenari alternativi. Ma all’ora di pranzo, la linea prevalente è quella di uscire dall’aula al momento del voto. Le misure anticipate da Draghi martedì non sono considerate sufficienti per cambiare idea. Si profila quell’Aventino che diventerà realtà a tarda sera, i cui effetti potrebbero essere pesantissimi. Sì, perché Palazzo Chigi considera quello scenario un punto di non ritorno o quasi: Draghi l’ha detto chiaramente a Mattarella. In questo quadro, Salvini cala la mannaia annunciando che se i grillini non voteranno il decreto, sono inevitabili le elezioni.

Conte si ritrova da solo: anche Enrico Letta dice che l’alternativa al governo, è il voto. Scoccano le tre del pomeriggio, quando l’avvocato del Popolo vacilla: l’idea di andare alle urne a novembre, senza alleati, proprio non gli va giù. Fosse per lui, la fiducia la voterebbe. Lo dice ai maggiorenti grillini, e lo ripete al premier che sente al telefono verso le 15.30. "I senatori – prova a spiegare – non sentono ragioni". Cerca di sondare il terreno, nel colloquio con Draghi prova a capire se ci sia margine per non votare la fiducia al Senato senza causare la caduta del governo. Niente da fare: il suo interlocutore è convinto che non si possa fare finta di niente se viene meno il sostegno di un partito di maggioranza su un decreto che stanzia miliardi. Draghi sul tavolo mette il reddito di cittadinanza, promettendo di cancellare con decreto l’emendamento riduttivo, e poi conferma gli interventi promessi l’altro ieri in conferenza stampa. L’avvocato del popolo pare pronto ad arrendersi, tanto più che, nelle stesse ore, il cardinale Pietro Parolin, ovvero il referente di Conte in Vaticano, lancia un appello alla responsabilità: "Bisogna lavorare tutti insieme", sottolinea

Ma un pezzo di Movimento freme. Gronda irritazione per quello che considera il ’ricatto’ di Enrico Letta: o votate il Dl, oppure andrete alle urne da soli. All’ora di cena, i vertici del Movimento tornano a vedersi: lì, il dado è tratto. "Non possiamo accontentarci di una promessa", avverte Conte. I senatori non voteranno il decreto: la palla passa a Draghi. Il Colle è rimasto a osservare la situazione, ufficialmente la decisione spetta al premier: è lui che deve scegliere se dare seguito a quanto detto in conferenza stampa e difficilmente farà diversamente. Ma soprattutto, deve decidere se accompagnare alla parola dimissioni l’aggettivo fatidico: irrevocabili. Se lo farà, se cioè pronuncerà quella formula sarà "game over", nessuna alterativa alle elezioni. Altrimenti, Mattarella rinvierà il governo alle Camere chiedendo un chiarimento nella sede adatta: dopo la giornata di passione di Conte comincia quello di Draghi.